È passato quasi un mese dalla pubblicazione dell’esortazione post-sinodale Querida Amazonia di papa Francesco. Nel frattempo siamo stati tutti travolti da questioni più urgenti di salute a livello globale e di psicosi sociale indotta dal contagio del Coronavirus che hanno fatto cadere nel limbo quasi tutto il resto della vita umana, anche il testo di Francesco.Questo ci permette oggi di farne una rilettura più pacata, ridimensionando anche dibattiti interni alla Chiesa cattolica davanti alle incognite e alle fragilità che abbiamo scoperto essere condizioni che accompagnano permanentemente il nostro essere uomini e donne.
Querida Amazonia è un documento deciso e profetico (nei suoi primi tre capitoli che riguardano la dimensione sociale, culturale ed ecologica) e, al tempo stesso, di attesa e sospensione del giudizio (nel quarto che concerne la Chiesa in Amazzonia). Risucchiata nel furore del dibattito ecclesiale, non ci si è quasi accorti del rilievo di alcuni dei suoi passaggi più esposti, imperniati sul riconoscimento che «l’Amazzonia è una totalità multinazionale interconnessa» (n. 5), nella quale la condivisione di un ecosistema costituisce la base per un’armonica convivenza di culture e costumi di vita diversi tra loro. Una terra, dunque, che appartiene originariamente ai popoli indigeni che la abitano, il cui diritto di proprietà non è concesso e quindi ha una preminenza sugli interessi nazionali ed economici che la stanno sfruttando oltre ogni accettabile misura.
In questa totalità culturale, ecologica e sociale, fatta di tradizioni e narrazioni raccolte da una sapienza ancestrale, si viene sempre «invitati» e non se ne è mai padroni. Questo, per Francesco, vale anche per la Chiesa cattolica che non è stata soggetto innocente nell’espropriazione di questo territorio. Ed è forse proprio questa una chiave possibile per calibrare la lettura del capitolo di Querida Amazonia sulla Chiesa.
La Chiesa cattolica, forte della sua storia millenaria, non ha ancora appreso cosa significhi essere invitata in storie che non le appartengono. Storie che deve imparare ad ascoltare, lasciando la parola «alla voce degli anziani», cosicché non vadano smarrite «le preziose narrazioni dei popoli» (n. 70). Non si tratta di una suggestione devota, ma di un imperativo per una Chiesa ancora troppo nord-occidentale nella sua forma mentis e nel suo apparato disciplinare. Una Chiesa che non ha più una narrazione capace di incontrare il vissuto effettivo della gente e che si perde in un discorso che non ha altro destinatario se non l’immagine che si è fatta di sé. Una Chiesa che parla allo specchio è tutto tranne che una Chiesa che annuncia il Vangelo nel quotidiano della vita umana.
Il prezzo che paga Querida Amazonia è quello che nasce dalla tensione fra la fine del modello ecclesiale tridentino e la genesi di un cattolicesimo comunitario che necessariamente si inventa al di là di esso. Francesco è cristallino nel riconoscere che le comunità cristiane nascono, si organizzano e vivono senza il ministero sacerdotale: «In Amazzonia ci sono comunità che si sono sostenute e hanno trasmesso la fede per lungo tempo senza che alcun sacerdote passasse da quelle parti, anche per decenni. Questo è stato possibile grazie alla presenza di donne forti e generose: donne che hanno battezzato, catechizzato, insegnato a pregare, sono state missionarie, certamente chiamate e spinte dallo Spirito Santo» (n. 99). Il grande dilemma, non solo del papa, è come corrispondere adeguatamente a questa mozione dello Spirito che fa essere il cristianesimo cattolico in un modo completamente diverso dal modello oramai esausto intorno al quale continuiamo a organizzarlo globalmente.
Da qui l’attesa e la sospensione del giudizio di Francesco che hanno sconcertato molti nella Chiesa, che nutrivano anche giuste aspettative su temi come l’ordinazione di uomini sposati e un’apertura del ministero alle donne. Se non oggi e qui, quando? Ma appunto, acconsentirvi non vorrebbe dire fare del modello latino della Chiesa cattolica uscita da Trento l’unica forma ecclesiale possibile valida ovunque e in ogni tempo? È a questa opzione che Francesco sembra opporre resistenza quando afferma che la Chiesa deve essere capace «di aprire strade all’audacia dello Spirito, di avere fiducia e concretamente di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laicale» (n. 94).
Una cosa è chiara a Francesco: in questo momento l’istituzione ecclesiale è più un inciampo all’audacia dello Spirito che sua alleata. Su come uscire da questa stasi mortale per il futuro della fede il papa ha un’altra idea ben precisa: non certo attraverso decisioni centralizzate e uniformi. All’audacia dello Spirito deve corrispondere l’audacia di ogni Chiesa locale, che trova nei modi specifici di genesi delle sue comunità forme concrete per congedarsi definitivamente dal modello tridentino della Chiesa come uniformità globale del cattolicesimo. Cosa che non possiamo certo mettere in pratica noi, così assuefatti all’assetto ecclesiale che impedisce i movimenti dello Spirito. Sospendiamo il giudizio e diamoci tempo per imparare, ostacolando il meno possibile l’inedito che nasce anche tra noi.
[L'immagine è: Portrait of the holy Father Pope Francis, 2013, Made by Bogdan Solomenco]
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