Sul regionalismo differenziato, il dibattito pubblico appare pericolosamente vago se non proprio infedele, le reticenze del ceto politico sono palesi, l’imbarazzo sembra essere un po’ di tutti. Ma questo non capita per caso. Al contrario, quasi fosse una fatalità, ogniqualvolta viene evocato il rapporto tra Sud e Nord, gli argomenti strumentali, le durezze ideologiche, le tensioni demagogiche riemergono in quantità, rendendo impossibile un ragionamento scevro da pregiudizi. È il destino della questione meridionale, anzi della retorica della questione meridionale.

Di quel che sarà concretamente il regionalismo differenziato si sa poco, perché le procedure formali sono ancora in cammino e perché, a monte, appaiono in standby le scelte della politica: le scelte sornione di una Lega nordista in via di nazionalizzazione e quelle impaurite di un movimento pentastellato privo di qualsivoglia strategia che non siano i click della Casaleggio Associati. Ma intanto ecco emergere la reazione del Sud, o meglio di un certo Sud, la sinistra meridionale, le istituzioni meridionali, l’intellighenzia meridionale. E sembra un copione fin troppo conosciuto. Non perché, intendiamoci, sia inopportuno ragionare di uno strumento legislativo che nel 1999 il governo D’Alema mise avventuristicamente nero su bianco con la riforma del Titolo V della Carta costituzionale e che ora trova la sua prima applicazione. Ma perché, con ogni evidenza, il linguaggio del dibattito sta subito diventando recriminatorio, apocalittico e perciò confondente.

“No alla secessione dei ricchi” è il titolo di un appello lanciato da Gianfranco Viesti. “Si tratta di un disegno eversivo che può disfare l’ordito unitario dello Stato”, scrive Piero Bevilacqua. “Non dimentichiamo il percorso tragico vissuto dall’autonomia catalana”, arriva a dire Eugenio Mazzarella. In altri termini, con uno spericolato crescendo emotivo, si passa dalla (giusta) discussione su un nodo indubbiamente cruciale per il futuro del Paese all’accusa al Nord “egoista” di voler tenere per sé tutti i soldi e infine all’evocazione di un’Italia spezzata in due, di un Risorgimento tradito.

Ciò che non viene detto è che, dal tardo Novecento, il divario tra Nord e Sud ha subito un'accelerazione vertiginosa in ragione della diversa produttività degli enti regionali. Sicché oggi quel che dovrebbe preoccupare le classi dirigenti e le popolazioni del Mezzogiorno non è la volontà delle regioni settentrionali di sperimentarsi nell’assunzione di nuove competenze, ma l’obiettiva difficoltà delle regioni meridionali – oberate come sono da inefficienze e insufficienze gestionali talvolta gigantesche – di prendere, giusta o sbagliata che sia, la stessa strada. La scelta di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna dovrebbe essere cioè l’occasione per riflettere sull’ormai storico divario di performance tra regioni centro-settentrionali e regioni del Sud. Un divario che rende assai azzardato da parte delle istituzioni meridionali scommettere sull’accrescimento delle proprie funzioni e sull’accrescimento, al tempo stesso, della propria produttività. E basti dire, citando la Svimez, che attualmente gli investimenti delle regioni meridionali nei servizi di pubblica utilità sono appena un quarto che nel Centro Nord. Ma non per mancanza di soldi, quanto per mancanza di capacità organizzativa. Di soldi ce n’è fin troppi: decine e decine di miliardi inutilizzati.

E poi, ma soltanto dopo aver individuato le storiche responsabilità del Sud, le voci che oggi si levano a difendere l’unità nazionale potrebbero a buon diritto porre il problema degli effetti che il regionalismo differenziato promette di avere sull’efficienza del sistema Paese. Non del Sud, ma dell’Italia intera. E a questo proposito, per dirne una, non c’è dubbio che l’autonomia territoriale di ambiti come la scuola pubblica o le grandi infrastrutture susciti legittime perplessità. Comporti il rischio di una “balcanizzazione delle competenze e delle risorse”, come ha scritto Carlo Trigilia. Allora però bisognerebbe dirsi con chiarezza come il problema, a monte delle odierne circostanze, sia la questione regionale tout court, ovvero quella (nobile) istanza al decentramento che scorre come un fiume carsico nelle culture politiche italiane fin dagli inizi dello Stato unitario e che però, dagli anni Settanta del Novecento, ha dovuto confrontarsi con gli effetti del “regionalismo reale”, cioè con i limiti conclamati di funzionamento delle regioni, con l’emergere di quasi-Stati nello Stato, con l’affiancarsi di un centralismo e burocratismo delle regioni al centralismo e burocratismo dello Stato. E naturalmente dovrebbero riconoscere, i corifei del Sud maltrattato, che sono state soprattutto le regioni meridionali ad aver compromesso il progetto del decentramento, spingendo anche coloro che ne erano stati convinti sostenitori a tornare sui propri passi, a sposare cioè ipotesi opposte di tipo centralistico. Era dopotutto un’istanza centralistica, di ripristino cioè di un maggior controllo del centro sulle periferie, la direzione in cui si muoveva, per quanto riguarda il Titolo V, la riforma costituzionale Renzi-Boschi.

A proposito della quale riforma (fallita), ci sarebbe un’altra considerazione da fare e un altro suggerimento da dare ai paladini del Sud. I quali, com’è noto, spesso provengono dalla sinistra politica, o da quel che ne resta. Ebbene, non andrebbe dimenticato che la stessa sinistra che oggi vede nel decentramento addirittura la fine dello Stato-nazione fu però molto avara nei confronti della riforma renziana e molto attiva nel boicottare il referendum del 4 dicembre 2016. Forse perché impegnata allo spasimo nella guerra contro l’ex premier. E cioè contribuì attivamente a bloccare una revisione del Titolo V che si muoveva proprio nella direzione di un irrobustimento dei poteri dello Stato. Fosse stato approvato dagli elettori, quel testo avrebbe impedito l’attuale rivendicazione delle Regioni settentrionali ad assumere maggiori competenze. Il che dovrebbe suggerire qualche riflessione critica – e magari autocritica – sui percorsi tortuosi, tattici, spesso improvvisati, talvolta populisti (per usare un lemma à la page) che una parte consistente della sinistra italiana ha finito per adottare nel suo dissennato via-vai tra accentramento e decentramento e nell’improvvido mescolare questo tema, certamente cruciale e assai concreto, con la retorica – invece nebbiosa, ideologica, perdente – della questione meridionale.