In un affollato cocktail party serale ai primi di maggio, a Budua in Montenegro, tra imprenditori, politici, amministratori, vari stakeholders e qualche professore universitario, si poteva cogliere la trasformazione civile e transnazionale in atto nell’Adriatico. Che non è più quello che ancora in molti immaginano: il mare confine con l’«altro». 

Sono ormai vent’anni che l’Ue incoraggia la collaborazione fra le regioni adriatiche tramite progetti Interreg transfrontalieri (la Cooperazione territoriale europea), con da una parte l’Italia e dall’altra la Slovenia e la Croazia, a cui poi si sono aggiunte l’Albania, il Montenegro e la Bosnia ed Erzegovina. Progetti che hanno portato finanziamenti ed esperienze di lavoro tra vari enti pubblici e privati. È seguita, dal 2004, la procedura di costituzione della regione europea Adriatico. L’iniziativa di per sé era scaturita dal Consiglio d’Europa, dal Congresso delle autorità locali e regionali, su richiesta della contea croata dell’Istria e del Molise. L’euro-regione, che è un soggetto di diritto internazionale, è nata ufficialmente il 30 giugno 2006, con un’assemblea tenutasi a Pola. Ne hanno fatto parte 23 unità amministrative tra province, regioni e municipalità d’Italia, di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Albania che si affacciano sull’Adriatico; un bacino che raggiunge 22 milioni di abitanti, pari a uno Stato europeo di media grandezza.

Nonostante il disinteresse della politica nazionale e dei grandi media, l’euro-regione Adriatico ha registrato decisi progressi. Dopo sei anni, nel gennaio del 2013, all’assemblea tenutasi a Termoli, si è deciso di ridefinire l’euro-regione estendendola allo Ionio. Nel 2014 di fatto è sorta la macroregione europea Adriatico-Ionio (comprensiva di Basilicata, Calabria, Sicilia, Grecia e Serbia) ed è stata promossa dall’Eusair (la European Union Strategy for the Adriatic and Ionian Region). L’Adriatico-Ionio affianca altre due macroregioni che si dispiegano attraverso la parte centrale dell’Unione europea, il Baltico e il Danubio.

I compiti di queste entità, euro-regione e strategia macroregionale, sono di raccordare le iniziative di tre fora, ossia i comuni, le camere di commercio e le università (iniziativa Uniadrion) e di perseguire strategie fissate attorno a quattro pilastri tematici: la cosiddetta crescita azzurra (Blue Growth), che concerne il settore marittimo; la connessione infra-regionale; la qualità ambientale; il turismo sostenibile. Per realizzare tutto questo, la macroregione si è definita una linea di governo e sono previste attività di coordinamento, nonché bandi per finanziare progetti specifici.

In questi anni, a fronte di accordi per quanto riguarda lo sfruttamento ittico tra Italia e Croazia, non sono mancati momenti di forte contrapposizione, per motivi di sovranità sul mare, tra Croazia e Slovenia. Ma, a parte l’annosa questione del golfo di Pirano, nell’insieme l’integrazione adriatica è un processo che continua a evolvere e un ruolo non secondario lo si deve all’allargamento della Nato in questo contesto. Accanto all’Italia, la Slovenia è membro dell’organizzazione dal 2004, la Croazia e l’Albania dal 2009, il Montenegro dal 2017. In questo processo, l’Adriatico si è stabilizzato in fatto di sicurezza e situazione militare; le forze navali sono ridotte al minimo (con l’Italia in netto predominio), se comparate con gli anni Settanta del Novecento. Sembra più che mai remota l’idea di un conflitto nell’Adriatico. Qualcosa di cui troviamo i precedenti solo ai tempi di Roma.

Insomma, sta emergendo un Adriatico a sé rispetto alle logiche politiche degli stati nazionali coinvolti. C’è molta retorica sul tema della cooperazione; si potrebbe discutere a lungo con quali esiti. C’è, di sicuro, una presa d’atto, tra le amministrazioni locali, che tutto questo conviene, c’è un diffuso pragmatismo. Dopo secoli di interscambio economico e sociale (migrazioni) tra le coste, dopo una condivisione culturale che ha connotato il Medioevo e oltre, fino al Settecento, dopo una marcata divisione per comparti statali-nazionali nel corso del Novecento, oggi sembrano maturi i tempi per immaginare l’Adriatico come qualcosa di unitario. Le iniziative sono magari circoscritte, ma sono tante, come tanti rivoli che portano verso un’unica meta. C’è volontà politica, c’è disponibilità, c’è un clima che fa ben sperare. Mai come oggi l’Adriatico risulta essere un contesto a sé, con una propria fisionomia anche amministrativa in mezzo agli Stati e alle regioni. Sotto questo aspetto, si tratta di un’area eccezionale nel Mediterraneo, dove, nonostante i proclami dal processo di Barcellona del 1995 fino all’Unione per il Mediterraneo del 2008, si sta approfondendo la faglia tra Europa e non Europa. Sta emergendo un Adriatico a sé rispetto alle logiche politiche degli stati nazionali coinvolti. Mai come oggi l’Adriatico risulta essere un contesto a sé, con una propria fisionomia anche amministrativa in mezzo agli Stati e alle regioniL’Adriatico, ovviamente, è un mare del tutto europeo e riflette su di sé le integrazioni europee. La mediterraneità è diventata più che mai europea, ma va ponderata la notevole asimmetria economica e demografica tra le due sponde. Da parte italiana c’è infatti una netta prevalenza quanto a forza economica e demografica. La costa italiana, contando solo le province rivierasche, ha infatti circa dieci milioni di abitanti, a fronte dei tre della sponda orientale. A contare le regioni, la sproporzione è ancora più forte (Veneto ed Emilia-Romagna raggiungono quasi i dieci milioni). Fino a pochi anni fa il Pil del Veneto era pari a quello dell’intera post Jugoslavia; e il Pil dell’Abruzzo è superiore a quello dell’Albania (almeno del Pil ufficiale), a fronte di metà popolazione. Il Pil delle regioni adriatiche d’Italia è nettamente superiore rispetto ai Balcani nella loro interezza (compresa Grecia e Turchia europea).

L’Adriatico rispecchia inevitabilmente, sulla sponda orientale, i problemi dell’area più frammentata al mondo, i Balcani. Gli Stati post-jugoslavi, nonostante la comune origine, hanno sviluppato vicende differenti negli ultimi trent’anni. C'è una Slovenia ai vertici europei per benessere e qualità di vita, e una Bosnia ed Erzegovina in costante stagnazione, una Serbia in difficoltà, un Montenegro dall’economia sfuggente. Le differenze che c’erano tra il Nord e il Sud in Jugoslavia degli anni Ottanta del Novecento si sono drasticamente approfondite nel XXI secolo. La Slovenia non ha che ribadito il fatto di essere uno Stato centro-europeo, secondo la sua tradizione storica; lo stesso vorrebbe la Croazia. Abbiamo perciò, in questi ultimi anni, un deciso ritorno dell’Europa centrale nell’Adriatico, come modello e ispirazione, mentre i Balcani sono circoscritti alla Bosnia ed Erzegovina, al Montenegro e all’Albania.

Va notata, tuttavia, la voluta assenza della cultura tra gli assi delle strategie integrative dell’Eusair. Si evita di parlare del passato, di storia; va bene l’attualità e vanno bene gli spettacoli musicali e la cucina. L’Adriatico è stato volutamente dimenticato, in primis in Italia. La dimensione adriatica è stata per secoli una quarta parte d’Italia, accanto al Nord, Centro e Mezzogiorno, in virtù della storia di Venezia, della complementarietà economica adriatica, della koiné linguistica e dei miti tardo risorgimentali che nell’Adriatico hanno collocato il compimento della nazione e la definizione dei confini nazionali, tra esaltazioni (1918), frustrazioni (1919-20) e traumi (1947). L’Italia repubblicana ha preferito minimizzare tale passato, con la scusa del mare frontiera nella Guerra fredda. Sull’altra sponda, nell’Adriatico orientale, abbiamo quattro Stati con scarsa vocazione marittima, nella cui storia il mare è pressoché assente: Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Albania hanno guardato all’Europa centrale e ai Balcani. Ma anche la Croazia, nonostante abbia una costa tra le più lunghe e articolate nel Mediterraneo, preferisce definirsi stato centro-europeo. In tutti questi contesti il mare Adriatico è solo un orizzonte, il limite della nazione.

In sostanza, a voler cercare di costruire una comune cultura adriatica, bisogna chiedersi: quale Adriatico? Gli immaginari italiani non sono gli immaginari albanesi o croati. Il passato, nel caso italiano, è visto attraverso un prisma fatto di istituzioni e società, e quindi Venezia non è che un «antico Stato italiano». In Italia è da decenni che si snazionalizza il passato. Nei casi sloveno, croato, montenegrino, albanese e anche greco, così come nell’Europa centrale e in quella orientale, come del resto è di norma nei Balcani, la storia è la proiezione a ritroso della nazione e in essa l’approccio etnicista rimangono comunque prevalenti, nella cultura popolare, nei manuali scolastici e in buona parte dell’accademia. In ambito sloveno e croato passa sottotraccia che la storia nell’Adriatico è stata contrassegnata da un rapporto coloniale di Venezia e dell’Italia verso la sponda orientale e da un approccio imperialista della cultura italiana verso gli slavi, in tempi remoti così come nella contemporaneità. Secondo questa prospettiva, si potrebbe giungere a ragionare in termini postcoloniali, riconoscendo nel passato una cultura dominante (italiana) e una cultura dei sottomessi o marginali (sloveni, croati, albanesi).

Eppure, è in Italia, per iniziativa di un’insigne slavista, Sante Graciotti, che nasce l’idea dell’homo adriaticus come un terzo livello, quello della sintesi, della simbiosi culturale romanza e slava, che tante volte si è realizzata nel litorale orientale. Un richiamo ai significati, alle innumerevoli testimonianze di condivisione che si possono trarre dalla vicenda storica dell’Adriatico. E solo da un passato complesso, plurale, non univoco, non mare nostrum, che le culture nazionali ed etnicistiche d’oggi possono trovare un nuovo senso dell’esserci lungo queste sponde. Se, insomma, da un lato abbiamo il pragmatismo degli imprenditori, delle camere di commercio, degli amministratori e degli scienziati che lavorano per migliorare la qualità del mare, dall’altro c’è la realtà di un confronto culturale che dovrebbe essere sincero e comportare autoanalisi del proprio vivere il passato per assolvere la storia e andare avanti. Nel caso Adriatico è evidente che è più facile far convergere assetti amministrativi e burocrazie e l’economia di uno spazio condiviso che superare visioni e interpretazioni del passato comunque comune. È più facile l’integrazione economica e politica dell’Europa che quella culturale. In Italia, per iniziativa di un’insigne slavista nasce l’idea dell’homo adriaticus come un terzo livello, quello della sintesi, della simbiosi culturale romanza e slavaL’unificazione dell’Adriatico, nonostante queste preoccupazioni, è un processo vivo che merita il successo. Per chi conosce la storia profonda di questo mare, non quella mistificata, è il ritorno all’Adriatico delle complementarietà e degli scambi, quello che fu per secoli prima dell’età delle nazioni. È anche un modo per superare le divisioni e le contrapposizioni tra gli stati balcanici. Può essere un caso esemplare per l’Europa e per il Mediterraneo. Rispetto all’europeismo (o antieuropeismo) astratto di tanta politica italiana, questo è un europeismo concreto, è la prassi europeistica effettiva, che si misura nelle sue varie sfumature in un contesto plurale. Si dovrebbe fare di più, a partire dai vertici politici, da Roma, lontanissima da queste realtà. La Germania guida con successo e dedizione l’integrazione della macroregione baltica, l’Austria quella del Danubio; l’Italia, nei suoi governi, sembra non capire che cos’è l’Adriatico: il mare che la definisce.