I riti in democrazia sono importanti e hanno la capacità di cementare una comunità. Al di là dei conflitti che la lacerano, testimoniano la continuità nella diversità delle scelte politiche, certificano la saldezza delle istituzioni sulla volatilità dei comportamenti e degli umori popolari.
Se ne erano accorti anche i padri fondatori della nuova repubblica americana quando, all’interno di una lotta politica che vedeva all’opera tutta la gamma possibile della retorica populista, ritenevano il passaggio di potere da un presidente all’altro come il momento della sospensione del conflitto e della ricerca dell’unità del paese.
Certo alla fine del Settecento anche nei primi decenni dell’Ottocento, tutto era relativamente più semplice: in fondo i candidati appartenevano alla stessa élite economico-sociale, condividevano la stessa cultura politica di fondo pur facendo riferimento a un elettorato già composito dal punto di vista economico, religioso ed etnico. Non a caso, il primo vero e proprio terremoto politico si ebbe con l’elezione dell’«uomo del popolo», piuttosto rozzo e volgare (o quantomeno così dipinto all’epoca), per quanto eroe di guerra, Andrew Jackson, il quale aprì la Casa Bianca al popolino che si gettò sulle bevande e sul cibo, travolgendo tutto sotto lo sguardo attonito dei rappresentanti delle élite che osservavano la nuova calata dei barbari.
Gli ultimi atti della presidenza di Barack Obama per certi versi sembrano voler segnare la distanza siderale fra la sua amministrazione e i nuovi barbari che si apprestano a entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. D’altronde, è una presidenza, quella Obama, che si conclude senza che siano emersi scandali o casi controversi che abbiano messo in discussione la caratura morale del presidente. La classe non è acqua, sembrano voler dire gli Obama a un popolo americano che ha eletto Trump a novembre, ma che allo stesso tempo continua a dare un giudizio estremamente positivo del presidente uscente e della sua first lady. Lo ha espresso Michelle Obama nel suo ultimo discorso, ribadendo che la forza dell’America, nonostante la rabbia di chi ancora non si rassegna all’evidenza, è la sua diversità di religioni, colori e valori. Una riaffermazione di tipo patriottico rivolta soprattutto a quei giovani che pure avevano tradito gli Obama e il partito democratico l’8 novembre, spronandoli a prendere in mano il loro destino, ma anche ad assumersi la responsabilità delle loro scelte e delle loro convinzioni.
Lo farà Barack Obama domani, 10 gennaio, nel suo ultimo discorso che, non casualmente, si terrà laddove tutto era cominciato, a Chicago. Sul sito della Casa Bianca, è pubblicata una foto, che ritrae la coppia, elegantemente vestita che guarda al di là del lago lo skyline della Windy City (come è definita Chicago). Un’immagine estremamente glamour che irriterà ancora di più quell’elettorato bianco infastidito da tutto ciò che è associato alle élite culturali più che a quelle economiche, come l’elezione di Trump ha ampiamente dimostrato.
Il Farewell Address è una tradizione, avviata con il famoso discorso di George Washington che invitava gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere negli affari europei, anche se non sempre è stata rispettata. Obama ha scelto di seguire una tradizione che vede nel discorso d’addio un modo per il presidente uscente di riaffermare la propria eredità politica e invitare il successore a tener conto che non può fare tabula rasa del recente passato. Lo stile, ovviamente, diverge a seconda dei contesti e dei presidenti. Clinton celebrò i successi economici dei suoi due mandati, i 22 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione più basso degli ultimi 30 anni, la diminuzione dei reati. Bush Jr., invece, non poteva che concentrare il suo discorso sull’impatto dell’11 settembre e sulle minacce di attacchi terroristici che rimanevano incombenti (ribadendo così la correttezza delle sue scelte), invitando l’America a rispondere alla sfida con «moral clarity».
Obama utilizzerà quest’ultimo spazio per ribadire i successi della sua amministrazione dal punto di vista politico interno e internazionale, rispondendo a coloro che hanno giudicato fallimentare la sua politica, difendendo a spada tratta la riforma sanitaria e invitando a tenere fede ai valori americani di rispetto delle differenze e del dialogo fra le tante Americhe che compongono il mosaico sociale e politico. E, tuttavia, il discorso di Obama è atteso per quello che può far intravedere rispetto alle strategie future del presidente uscente. Di fronte a un Congresso pronto a smantellare programmi che neppure Reagan aveva mai messo in discussione come il Medicare, tanto che, come ha osservato Immanuel Wallerstein, persino Trump è preoccupato da un radicalismo che rischia di provocare una rivolta sociale, Obama è costretto a difendere la sua eredità politica. Se nella conferenza stampa di fine anno, aveva dichiarato di vedere il suo ruolo come quello di «counsel and advice» per il partito democratico, adesso il suo impegno è estremamente più ambizioso. Di fronte a un’elezione che ha azzerato il partito democratico, il compito primo è quello di ricostruire la leadership del partito. Per fare questo però Obama si pone un obiettivo che, in realtà, dovrebbe essere caro a leader che ambiscono ad avere una visione politica che duri più di uno spazio di tweet e che siano meno affascinati dalle sirene della post-verità (qualunque cosa essa significhi): quello della costruzione e formazione di una classe politica, di una classe dirigente. Un investimento di lungo periodo che deve accompagnarsi a un lavoro politico sul territorio che porterà Obama a visitare proprio quelle contee che Hillary Clinton aveva trascurato, pagandone amaramente il prezzo. Proprio l’individuazione di una nuova generazione di politici democratici sembra il compito principale della Fondazione Obama che ha sede a Chicago e che vorrà, quindi, essere qualcosa di più che non la sede della presidential library. Non a caso, a capo della fondazione è stato chiamato uno stretto collaboratore di Obama, fin dalla campagna elettorale del 2008, David Simas, che in precedenza aveva lavorato per l’ex governatore democratico del Massachusetts, uno di quegli Stati che, per alcuni, devono costituire la rampa di lancio per la controffensiva del Partito democratico dal punto di vista sia delle scelte politiche sia della costruzione del consenso. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, poi, fa parte lo stratega elettorale del 2008, David Plouffe, oltre ad altri esponenti di primo piano del partito.
Obama, quindi, ricomincia da tre, per riprendere il titolo del film del mai troppo compianto Massimo Troisi: dalle vittorie nelle primarie nel 2008, nelle presidenziali del 2008 e del 2012. Non si accontenterà, sembra, di fare il citizen-diplomat onorario come Carter, ma vorrà essere un citizen-activist. Di certo il lavoro non gli mancherà.
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