Nella fase più acuta della pandemia da Covid-19 si è palesato un problema – che ora sembra per fortuna risolto – di scarsità di posti letto in terapia intensiva a seguito del simultaneo ammalarsi di grandi quantità di persone. Ci si è trovati, cioè, a dover prendere decisioni relative non solo al se ammettere un paziente in terapia intensiva (un problema di medicina “da tempi normali”, per il quale esistono criteri clinici consolidati e non controversi), ma anche di quali pazienti ammettere tra quanti avessero titolo clinico al trattamento.
Come ha già notato Francesco Ferraro su queste stesse pagine, il problema è stato affrontato nelle Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, pubblicate dalla Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Raccomandazioni che si sono rivelate opportune sotto almeno tre punti di vista.
Innanzitutto, per aver dato linee di comportamento generale agli operatori, sottraendoli così alla responsabilità di dover fare da sé, col carico emotivo che questo comporta. In secondo luogo, per aver portato all’evidenza dell’opinione pubblica la necessità di dover effettuare delle scelte (sul chi e non solo sul se), facendo un primo passo verso la condivisione di un problema che, in condizioni di non pandemia, si preferisce lasciare sottotraccia e forse far finta che non esista (ma il caso dei trapianti d’organo dovrebbe ricordarci che anche in tempi normali non è così). Infine, per aver proposto criteri specifici in base ai quali effettuare tali scelte, così gettando un sasso in uno stagno che a questo punto vorrei scandagliare con più attenzione.
Relativamente a quest’ultimo punto, la Siaarti scrive: “Può rendersi necessario porre un limite di età all'ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di first come, first served equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla terapia intensiva”.
Sono, è bene esprimerlo con chiarezza, criteri etici, non clinici, ed è corretto dunque quanto ha osservato Maurizio Mori nel motivare il suo voto contrario (l’unico) al Parere del Comitato nazionale di bioetica dell’8 aprile: “le Raccomandazioni Siaarti sono migliorabili ma puntano nella direzione giusta. Riconoscendo la presenza di fattori extra-clinici nella scelta, aprono da una parte nuovi orizzonti che dovranno essere approfonditi e ulteriormente precisati. Sappiamo tutti che il triage o scelta di chi ammettere alle cure è realtà terribile, ripugnante e che tutti vorremmo evitare. Ma compito dell’etica e della bioetica è affrontare anche tali problemi difficili e individuare le possibili soluzioni razionalmente giustificate, a costo di urtare inveterate opinioni ricevute. Forse per timore che il riconoscimento di fattori extra-clinici nella scelta potesse aprire la porta a possibili discriminazioni, il Parere del Comitato è venuto a negare al riguardo e preferito rassicurare gli animi osservando che, come sempre, anche nelle situazioni eccezionali vale solo il criterio clinico e che tutto rimane più o meno come prima”.
Fatta questa premessa di metodo, la proposta della Siaarti merita, credo, almeno quattro commenti, due più brevi e due più lunghi (e questi ultimi due in collegamento tra loro). Il primo commento riguarda i tre punti che effettivamente dice: primo, che va privilegiato chi ha più probabilità di sopravvivenza; secondo, che, a parità di probabilità di sopravvivenza, va privilegiato chi è più giovane; terzo, che decidere dell’accesso alla terapia intensiva sulla base dell’ordine di arrivo in terapia intensiva non pare appropriato. Il secondo commento concerne la terza cosa che dice, ossia la critica al criterio del first come, first served; anche se nel testo manca una vera motivazione contro questo criterio, non è difficile immaginarne una, per esempio che non può essere la “lotteria” dei tempi del contagio e del relativo arrivo in ospedale, e dunque l’arrivare per primo a un posto letto di terapia intensiva, a determinare chi vive e chi muore.
Il terzo commento è relativo all’assai discusso richiamo alla possibilità di introdurre limiti di età per l’accesso alla terapia intensiva, che potrebbe configurare il rischio dell’ageismo, cioè di una discriminazione verso gli anziani. Per un verso, sembra di capire che un’esclusione dei pazienti sulla base dell’età (peraltro non precisata in termini numerici) è più che altro una possibile conseguenza dei due criteri proposti, ossia la probabilità di sopravvivenza in prima istanza e l’aspettativa di vita in subordine (i primi due punti del primo commento). D’altra parte, mentre il primo criterio (più probabilità di sopravvivenza) solo contingentemente è collegato all’età del paziente, nel senso che non è necessariamente vero che il più anziano, o chi supera una certa soglia anagrafica, è anche chi ha meno probabilità di sopravvivenza, il secondo (più anni di vita salvati) fissa invece un legame necessario, non più contingente, con l’età anagrafica.
Questo secondo criterio, e così arrivo al quarto commento, non è però un punto che può essere dato come moralmente pacifico. Infatti, mentre il criterio delle maggior probabilità di sopravvivenza pare ragionevole (se le risorse sono scarse, non dobbiamo sprecarle, e perché non siano sprecate occorre indirizzarle verso chi ha maggiori chance di cavarsela), è più controverso che possa esserlo quello degli anni di vita salvati. La mia impressione è che buona parte della forza di questo secondo criterio dipenda da chi prendiamo, o immaginiamo, come termini del confronto: mettendo in competizione un, poniamo, settantenne e un ventenne, il criterio sembra riscuotere una certa accettabilità intuitiva; non sono sicuro che sia lo stesso se i “concorrenti” fossero un quarantacinquenne e un cinquantacinquenne, o un sessantenne e un settantenne.
In realtà, però, le difficoltà di questo criterio appaiono più profondamente teoriche di così, dal momento che riguardano in definitiva il suo fondamento giustificativo. In che cosa consiste tale fondamento? Una risposta potrebbe semplicemente consistere nell’autoevidenza morale e nel valore intrinseco di questo criterio, per cui è il fatto stesso di salvare più anni di vita a creare maggiore valore “morale” rispetto a una situazione in cui se ne salvano di meno (e a chiederci di spendere di conseguenza i fondi pubblici). Si tratta, mi pare, della posizione implicitamente sostenuta dal documento Siaarti e accolta anche in un altrettanto pregevole documento, Emergenza Covid-19 e criteri di accesso alle terapie. Una riflessione protestante, a cura della Commissione Bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Questa soluzione si espone, però, a due ordini di problemi. Innanzitutto, pare soggetta a una variante della nota obiezione di John Rawls all’utilitarismo di considerare gli individui come “contenitori di utilità”; l’utilitarismo, come come ha ben mostrato Ferraro, è stato spesso evocato a sproposito in questo dibattito e ingiustamente accusato di ogni nefandezza, ma mi sembra che almeno questa critica resti in piedi, cioè che gli individui, in questa prospettiva, verrebbero trasformati in “contenitori di anni” e il valore di ciascuno sarebbe definito dal numero di anni che potenzialmente ancora avrà da vivere. Inoltre, dato che, come è noto, le aspettative di vita tra uomo e donna sono sensibilmente diverse, un approccio che puntasse a massimizzare gli anni di vita salvati dovrebbe dare sempre la precedenza alle donne; ma accetteremmo anche questa implicazione sessista – seppur, per una volta, a svantaggio degli uomini – del criterio del maggior numero di anni salvati?
Per evitare queste obiezioni si potrebbe cercare allora di fondare il criterio del “più anni di vita salvati” sull’idea che a tutti, nel limite del possibile, spetta poter vivere un certo numero di anni e, in presenza di una situazione in cui occorre fare delle scelte, va privilegiato chi ha più anni davanti a sé per raggiungere quel numero; o, per dirla altrimenti, non ci devono essere sperequazioni nel numero di anni da vivere, per cui chi ha vissuto di più deve lasciare spazio a chi sin qui ha vissuto di meno. In questo modo, però, non viene considerato l’aspetto diacronico della faccenda: se è vero che oggi chi ha cinquant’anni ha vissuto venti anni in meno rispetto a chi ne ha settanta, ma, se si dà al cinquantenne il posto letto, è altrettanto vero che tra trent’anni potrà essere quest’ultimo ad avere accumulato dieci anni di vita in più rispetto al settantenne cui il posto letto viene ora negato. In breve: per risolvere una sperequazione oggi ne creiamo, almeno potenzialmente, un’altra, a parti invertite, che si manifesterà domani.
So bene, naturalmente, che questo tipo di analisi sconta un problema di astrazione: stiamo ipotizzando che ci siano due persone di età diversa, ma con le stesse chance di sopravvivenza, in concorrenza per un unico posto letto in terapia intensiva, laddove le situazioni concrete hanno dei livelli di complessità maggiori. Ma il pensiero etico astratto serve proprio a questo: a definire una cornice di ragionamento che possa fissare criteri utili a guidare le scelte nei casi concreti e a sottoporre a scrutinio critico tali criteri. Il documento Siaarti è anche un invito a questo e la speranza è che la bioetica italiana lo sappia raccogliere.
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