La Stalingrado dei curdi. Mi sveglio all’alba. Il mio interprete e la mia scorta dormono ancora; dopo la doccia esco dall’albergo-ostello appena rimesso a nuovo e gestito dal governo del Rojava – la piccola, indomita regione autonoma curdo-siriana schiacciata tra la frontiera turca e il territorio controllato dall’Isis. All’ingresso ci sono il nostro autista e una guardia armata: faccio un gesto vago, senza fermarmi – qualcosa che potrebbe voler dire «buongiorno, vado a fare due passi ma ci vediamo presto» – e loro, un po’ stupiti e un po’ intimiditi, non mi fermano.

Ho qualche idea della topografia della battaglia, per cui mi dirigo subito verso est. Polvere, poche macchine, una donna che spazza il marciapiede di fronte alla sua casa diroccata. Un uomo vestito all’occidentale, con l’aria di andare al lavoro, incrociandomi ripete tre volte welcome! – e sorride, mentre mi viene incontro per stringere la mia mano. Quel che resta della città è un labirinto spettrale nella prima luce del giorno. Sono nel cuore del campo di battaglia, nel punto più avanzato raggiunto dai miliziani dell’Isis nel corso della loro offensiva d’autunno.

Mi avventuro tra le rovine: postazioni abbandonate, ratholes – aperture praticate nei muri interni – per passare in relativa sicurezza da una stanza all’altra e da un edificio all’altro. Un materasso arrotolato, un barile di petrolio riempito di sassi, sacchetti di sabbia. Sono in un caposaldo dello Ypg (o dello Ypj, la milizia femminile), predisposto per battere un incrocio e due strade che si allontanano verso est e verso sud. Per prudenza evito di spostare qualsiasi oggetto che attiri la mia attenzione, e che possa nascondere una trappola esplosiva. Scavalco una colonnina messa di traverso sulla scala interna, evito di sollevare una scatola di latta abbandonata vicino a un nido di mitragliatrice. Cerco di immaginare cosa potesse significare combattere casa per casa contro un nemico feroce, determinato ad utilizzare armi estreme – suicide-bombers e soprattutto Vbied, i micidiali veicoli imbottiti d’esplosivo capaci di demolire un intero isolato. Non è facile. Stalingrado con l’aggiunta del fanatismo religioso.

Scatto qualche foto, torno in strada. In quello che resta della strada. Delle ruspe stanno rimuovendo le macerie e una nuvola di polvere sbianca il cielo sereno. Mi sento chiamare: in una traversa alla mia sinistra ci sono tre uomini seduti sul marciapiede, che mi invitano a gesti a unirmi a loro. Stanno prendendo il tè su un piccolo tappeto, dopo essersi tolti le scarpe. C’è qualcosa di surreale, eppure di nobile e tenace nel loro modo di vivere la città fantasma. Uno è vestito all’occidentale, un altro in dishdasha, il terzo – più anziano, più modesto – sembra il loro servitore. È lui che mi prepara il tè. L’uomo con la dishdasha mi fa accomodare accanto a sé, mi abbraccia e mi bacia tra i capelli. Cerchiamo di parlare, di capirci. È quasi impossibile: ma quello che riescono a comunicare sono cose terribili – gente catturata e sgozzata, o bruciata viva. Passano due ragazze che sanno un po’ di inglese, si fermano e accettano di tradurre qualcosa: spiego che sono uno storico, che devo scrivere un libro. I miei ospiti sembrano entusiasti – sì, la memoria, sembra dire il più estroverso, è la cosa più preziosa. Devo scrivere per loro, per la loro città. Accetto un secondo bicchiere di tè, come sempre troppo nero e troppo dolce, che non potrò mai dimenticare. Ma la mia scorta sarà ormai nel panico e devo tornare verso l’albergo. Ci abbracciamo, ci fotografiamo, ci diciamo addio.

Verso le 10 del mattino, senza fretta, Mustafa – uno dei responsabili del Media Center di Kobane, che parla un inglese appena comprensibile – passa a prendermi e mi porta nella sede dello Ypj, dove mi aspetta la comandante Meriem, una leggenda vivente per i combattenti curdi del Rojava. È a poche centinaia di metri dall’albergo, in quello che doveva essere un condominio di abitazioni civili evidentemente risparmiato dalla furia della battaglia. Dopo esserci tolti le scarpe saliamo una rampa di scale ed entriamo in una sala comune, arredata come al solito in maniera essenziale – un grande tappeto, materassi e cuscini lungo tutto il perimetro – sotto lo sguardo serio di qualche shehid ("martire") e dell’immancabile "Apo" Oçalan. Ci sono cinque donne in mimetica; dopo i saluti e le strette di mano mi fanno sedere di fronte alla più anziana tra loro, una quarantenne minuta dal naso aquilino e i capelli striati di grigio, in attesa dell’acqua fresca e del tè bollente. Dopo aver bevuto senza dire nulla d’importante, la combattente coi capelli grigi saluta e se ne va, e capisco che la comandante Meriem è in realtà un’altra, più giovane, che ha assistito alla prima scena un po’ in disparte.

Sorprendente. Non potevano certo pensare che io fossi una minaccia – un infiltrato nemico, come i finti giornalisti che riuscirono ad assassinare Ahmad Shah Massoud il 9 settembre 2001 nella valle del Panjshir, la sua roccaforte afgana. Forse la comandante Meriem voleva solo accertarsi che parlare con me non fosse un’inutile perdita di tempo. Comunque adesso ci siamo. Meriem si sposta al centro della stanza, sedendosi a gambe incrociate a meno di due metri da me. Quando comincia a parlare lo fa scandendo bene le frasi, con pause appropriate. Il mio interprete traduce senza troppa fatica: l’inizio è deludente, perché la comandante si sente in dovere di tornare alle radici della lotta dei curdi per la loro libertà. Ma dura poco: dopo qualche minuto riusciamo finalmente a parlare della battaglia. È stata lei a definire per la prima volta Kobane la "Stalingrado dei curdi". Lei ha ricevuto, una notte, una chiamata sul suo smartphone: uomini dell’Isis avevano appena catturato, sgozzato e decapitato una sua amica, e stavano usando il suo telefono. Il nome di battaglia "Meriem" era già famoso. «Ti veniamo a prendere, e stacchiamo la testa anche a te». «Buona fortuna, vi aspetto», dice di aver risposto. «Siamo in tante pronte ad accorciare la vostra strada verso il paradiso».

Meriem ricorda adesso i momenti più difficili: quando i miliziani del Califfato, furibondi per non essere riusciti a spazzare via la resistenza del suo reparto di donne, cominciarono a usare massicciamente veicoli imbottiti di esplosivo per aprirsi la strada verso nord, nel cuore della città. Quando mandarono avanti gruppi di ragazzi imbottiti di droga, difficili da abbattere perché restavano in piedi anche dopo essere stati colpiti. «A volte era necessario vuotare un caricatore intero…» Quando cominciarono a usare i carri armati come arieti per sfondare le case, e loro non avevano armi pesanti per fermarli. E gli airstrikes della coalizione servivano a poco, nel caos della lotta a distanza ravvicinata.

Scrivo in fretta. Si forma l’immagine di una battaglia feroce, come quasi sempre accade nei centri urbani, combattuta senza pietà in spazi minimi, claustrofobici. Un tipo di guerra per cui è necessario un addestramento specifico: mi chiedo come abbiano fatto, le ragazze di Meriem e gli altri combattenti curdi, a sconfiggere nemici più esperti. È una domanda sbagliata, perché riporta Meriem all’ideologia, che non mi interessa. Ma il morale sì. Queste donne e questi uomini, evidentemente, durante la difesa di Kobane possedevano una determinazione più forte di qualsiasi difficoltà. E comunque erano guidati da gente in gamba: Meriem torna alla battaglia, e mi descrive in poche frasi la tattica dello hugging ("abbraccio"), che consiste nel lasciar avvicinare il nemico, mischiarsi a lui nelle case e nelle strade per stringere in un "abbraccio mortale" le sue unità d’assalto, con l’effetto di impedirgli di usare armi pesanti in loro sostegno, e di sfruttare al massimo la propria superiore conoscenza del terreno, oltre che posizioni predisposte e passaggi ricavati per muoversi al coperto.

La conversazione continua. È stata una vittoria decisiva, perché l’Isis ha messo in campo tutte le risorse a sua disposizione, visto che l’obiettivo strategico di consolidarsi sulla frontiera turca era prioritario. Ma gli uomini del Califfato hanno dovuto riconoscere, per la prima volta, che i curdi del Rojava erano più duri di loro. Per concludere l’intervista chiedo se i miliziani dell’Isis, a fine gennaio, si siano ritirati poco a poco, continuando a ostacolare la loro controffensiva, o a un certo punto abbiano ceduto di schianto. Meriem, impassibile, mi risponde che non si sono mai ritirati. «Quelli che sono entrati a Kobane, sono rimasti a Kobane. Morti».