Barricate senza alternativa. La sensazione che Viktor Janukovič abbia perso il controllo del Paese è netta già all’aeroporto di Kiev: nelle sale d’aspetto gli schermi mostrano il quinto canale, quello della rivoluzione arancione che, oggi come allora, è dalla parte della piazza. Ne è proprietario Petro Porošenko, imprenditore di successo, che avrebbe visto schiudersi le porte di grandi mercati da conquistare grazie all’accordo con l’Unione europea, e che da sempre è impegnato in politica. Il 1 dicembre cercò personalmente di sedare gli scontri, dopo che la notte precedente la polizia aveva attaccato i manifestanti - fino ad allora pacifici - sul Majdan nezaležnosti, la piazza dell’indipendenza.
Per visitare il Majdan basta prendere la metro e scendere all’omonima stazione, dove si entra in un mondo parallelo e inusuale, specie per lo spazio ex sovietico. Si viene accolti da sorrisi, mentre una coppia di donne offre a tutti panini con lardo, donati dalla generosità dei cittadini. Mi incontro con Tetjana, un’amica che lavora all’Accademia nazionale delle scienze: lavora da anni a un grande progetto di storia orale della seconda guerra mondiale, ha studiato la Shoah e non ha simpatia per i fascisti. Mi porta a visitare una delle tende: dentro, una stufa improvvisata quanto perfettamente funzionante scalda una manciata di attivisti. «Un dottorando del nostro istituto ha organizzato questa tenda e noi ci siamo sentite in dovere di aiutare», mi dice mentre distribuisce vareniki, i tipici ravioli, in bicchierini di plastica.
Su via Hruševs’kyi, sede degli scontri, tutto è calmo: sono in corso le trattative con la Berkut, la polizia antisommossa. Dei vecchi battono bastoni sui barili e dalla sommità delle barricate di neve i più giovani sventolano la bandiera nazionale. Ci si saluta dicendo «Gloria all’Ucraina!» e rispondendo, secondo la formula, «Gloria agli eroi!». Vista dall’esterno sembra una rivoluzione nazionale: gli slogan, le immagini dei partigiani nazionalisti ucraini, il desiderio di non voler finire come in Russia. La protesta ha però assai poco a che fare con un supposto scontro etnico. In piazza si parla indifferentemente russo o ucraino. I primi due morti degli scontri, caduti sotto le pallottole della polizia, erano un armeno e un bielorusso. La scintilla è stata il rifiuto del governo a firmare gli accordi con l’Ue, ma le motivazioni sono altre.
Da quando salì al potere, quattro anni fa, Janukovič ha reso il suo paese più povero e meno democratico. Si è costruito una reggia da milioni di dollari, mentre il figlio è diventato il primo recipiente di commesse statali. La corruzione è dilagata nella burocrazia e sopratutto nella polizia. Nel corso del 2013 sono stati centinaia i casi di violenza (come lo stupro) impunemente commessi contro i civili. Così, quando nella notte del 30 novembre la polizia ha attaccato, si è scatenata la rabbia di anni di soprusi.
La debolezza del movimento non è nei manifestanti, che da tre mesi affrontano l’inverno sulle barricate, ma nella mancanza di una leadership capace di condurre la trattativa con Janukovič. Il 19 gennaio il segretario del maggiore partito d’opposizione, Arsenij Jatsenjuk, ha risposto alla folla che chiedeva una svolta che il leader del movimento era il popolo ucraino, come a liberarsi della responsabilità. I manifestanti hanno allora cercato indipendentemente di prendere la sede del governo, dando inizio agli scontri. Sono seguite le violenze della polizia, le foto con gli arrestati nudi nella neve, i rapimenti notturni di attivisti e giornalisti, i cadaveri ritrovati nei boschi. La polizia ha arruolato teppisti per usare violenza aggirando la legge.
Ma i manifestanti non sono arretrati e hanno costretto i partiti d’opposizione a rifiutare tutti i compromessi, persino la proposta di un nuovo governo. Perché, infrangendo le regole della democrazia, Janukovič ha perso qualsiasi autorità e gli ucraini non hanno più paura di subire violenza: se non si oppongono ora, sanno che domani sarà troppo tardi. Per chi desidera libertà e democrazia non v’è alternativa alle barricate. La prima condizione per le trattative è il rilascio di tutti gli arrestati e il rispetto dei diritti umani.
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