L’uccisione mirata tramite l’utilizzo di un drone, a Kabul il 31 luglio scorso, di Ayman al-Zawahiri, considerato il leader di al-Qaeda dopo Osama Bin Laden, è stata salutata dall’amministrazione americana come un grande successo. Sui giornali statunitensi (a cominciare dal “New York Times” e dal “Washington Post”) sono uscite ottime analisi utili a svelare dettagli e retroscena dell’operazione. Tuttavia manca la discussione sulla base legale di questo tipo di operazioni speciali, come ha fatto notare Craig Martin, docente di diritto internazionale e uso della forza nei conflitti armati.
Sebbene molti, a partire ovviamente dal presidente Biden, stiano celebrando l’eliminazione di al-Zawahiri come la “giustizia fatta” nei confronti di un terrorista ideatore degli attacchi dell’11 settembre, un Paese di diritto dovrebbe andare oltre, preoccupandosi che giustizia sia fatta in accordo con lo Stato di diritto. Fanno riflettere in tal senso anche le dichiarazioni dell’ex presidente Obama che, come dieci anni fa in occasione dell’uccisione di Osama bin Laden da lui ordinata, ha dichiarato con enfasi su Twitter che il successore di bin Laden has finally been brought to justice. Obama ha anche ringraziato i servizi dell’antiterrorismo, che hanno lavorato per due decenni per ottenere questo risultato e sono stati in grado di centrare l’obiettivo senza una sola vittima civile. Soprattutto, ha celebrato l’uccisione di al-Zawahiri come “prova che è possibile eradicare il terrorismo senza essere in guerra in Afghanistan". Il riferimento è alla nuova dottrina Usa in Afghanistan post-disengagement del settembre 2021, aulicamente denominata “Over the horizon”: niente presenza fisica sul campo, massiccio uso di droni.
Tuttavia, proprio le parole dell’ex presidente (premio Nobel per la pace) tradiscono la problematicità delle operazioni letali dei droni, come quella appena condotta “con successo” contro il leader di Al-Qaeda a Kabul. Se gli Stati Uniti non sono in guerra in Afghanistan, ed è indiscutibilmente così, devono avere una base giuridica per l’uso della forza letale in territorio afghano. La giustificazione adottata è sempre quella basata sui poteri straordinari dati al presidente degli Stati Uniti all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle, che gli avrebbero permesso di eliminare (presunti) terroristi come nemici, considerati alla stregua di obiettivi militari in guerra, in quanto appartenenti a un gruppo armato parte di un amorfo e sconfinato conflitto armato di natura asimmetrica. Come è stato messo in luce in un recente editoriale, dall’11 settembre 2001, i vari presidenti Usa che si sono succeduti non hanno mai dichiarato finito il conflitto armato con al-Qaeda, continuando a invocare il paradigma della guerra come base legale per uccidere i membri del gruppo armato. In tal modo i limiti giuridici all’uso della forza letale nei confronti dei sospetti terroristi sono stati rimossi o drasticamente ridotti, anche al di fuori di qualsiasi “campo di battaglia” - concetto peraltro espressamente richiamato nel discorso di Biden dopo l’uccisione di al-Zawahiri, ma ormai privato di alcun contenuto nell’ambito dei conflitti asimmetrici contemporanei.
Se gli Stati Uniti non sono in guerra in Afghanistan, ed è indiscutibilmente così, devono avere una base giuridica per l’uso della forza letale in territorio afghano. Invece la giustificazione adottata è sempre quella basata sui poteri straordinari dati al presidente degli Stati Uniti all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle
Si tratta di una posizione molto controversa e anzi rigettata dalla dottrina internazionalistica prevalente, in quanto lascia irrisolte una serie di complesse questioni giuridiche relative allo status giuridico e protezione dell'individuo nel diritto internazionale umanitario e ai limiti geografici del presunto conflitto armato (che non può essere globale). Come notava in occasione dell'uccisione di Soleimani nel 2020 Oona A. Hathaway, professoressa di diritto internazionale a Yale ed ex-consigliera del Dipartimento della Difesa sotto la presidenza Obama, “la realtà della situazione è che negli anni i presidenti [Usa] hanno interpretato in modo espansivo i loro poteri di guerra”.
Inoltre, la policy adottata dagli Stati Uniti per compiere operazioni letali con i droni (i c.d. “omicidi mirati” o targeted killings), resa pubblica da Obama ai tempi, richiede che vi sia un imminent threat posto dall’individuo che si vuole eliminare, che non vi siano alternative (ossia non sia possibile avere boots on the ground o il Paese sia unwilling or unable di fronteggiare il pericolo) e la quasi certezza che il target sarà eliminato senza causare vittime civili. Se analizziamo i targeted killings compiuti dagli Stati Uniti in questi anni - da bin Laden in Pakistan, a Soleimani in Iraq, ad al-Zawahiri in Afghanistan, passando per una miriade di uccisioni anche molto recenti ma meno pubblicizzate come mostrano dati aggiornati - vediamo che questi criteri sono stati disattesi o interpretati in termini talmente vaghi da non avere più alcuna funzione limitatrice dell’uso della forza letale.
Quanto all’uccisione di al-Zawahiri, non pare che gli Stati Uniti abbiano sostenuto che egli fosse attualmente impegnato nella pianificazione di qualsiasi attacco o che rappresentasse un imminente pericolo, né avrebbero potuto seriamente farlo. Significativo in proposito è il recentissimo rapporto del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sull’attività dello Stato Islamico e di al-Qaeda, che ha concluso che: "al-Qaeda non è vista come una minaccia internazionale immediata dal suo rifugio sicuro in Afghanistan perché non ha una capacità operativa esterna [...]". Come dichiarano fonti ben informate, il leader di al-Qaeda aveva in realtà smesso di essere rilevante per gli affiliati al gruppo jihadista molto tempo fa e i suoi video erano “analizzati nel dettaglio e probabilmente guardati più degli analisti che dai jihadisti”. Non a caso le dichiarazioni di questi giorni, sulla necessità di eliminare il target in questione, fanno sempre riferimento al ruolo da lui svolto 21 anni fa, in occasione dell’attacco alle Torri gemelle. Questo svela la vera funzione, o almeno una importante componente, di tali omicidi mirati di presunti o accertati terroristi: revenge, vendetta, in nome e per conto delle vittime americane dell’11 settembre, non a caso messe sempre in evidenza nei discorsi dei presidenti di turno. Anche Biden ora, come Bush, Obama e Trump prima di lui, ha dichiarato di sperare che l’uccisione di al-Zawahiri possa portare alle famiglie delle vittime e ai sopravvissuti dell’11 settembre one more measure of closure, possa quindi essere loro di sollievo.
Costante riferimento nei discorsi ufficiali di questi giorni è inoltre l’enfasi sull’assenza di vittime civili collaterali, a sottolineare la precisione dello strike in questione e ad implicare la sua legittimità. In realtà, la tesi volta ad affermare che gli attacchi mediante droni siano precisi e chirurgici è ormai smentita nei fatti da decine di report e inchieste giornalistiche. L’ultimo esempio di una lunga serie riguarda proprio l’Afghanistan, dove il 29 agosto 2021 un drone Usa uccise 10 civili innocenti, inclusi 7 bambini. Costretti da un’eccellente inchiesta del “New York Times” ad ammettere il tragico errore, gli Stati Uniti, che sostenevano di avere colpito un membro dell’Isis, hanno comunque escluso qualsiasi indagine per accertare le responsabilità dell’"incidente".
L’assenza di dibattito sugli omicidi mirati dei droni è anche una diretta conseguenza della opacità con cui i governi coinvolti si muovono. Non solo quello degli Stati Uniti, ma anche quelli europei, che giocano un ruolo fondamentale mettendo a disposizione degli Usa infrastrutture e cooperazione
Quanto alla più recente operazione a Kabul, sebbene da quanto emerso finora non pare effettivamente che l’attacco del 31 luglio abbia causato altri morti oltre all’obiettivo singolo, non va dimenticato che, come ben raccontato in un articolo del 2014 da Spencer Ackermann , oltre 100 persone (di cui 77 minori e 29 adulti) sarebbero state uccise nel tentativo di uccidere al-Zawahiri in due attacchi dei droni Usa in Pakistan nel 2006. Il contenuto del report di Reprieve su cui l’articolo si basa è sconvolgente, se pensiamo che decine di individui inclusi nelle “kill-list”, ossia persone destinate a essere uccise mediante un’operazione di targeted killing (con droni o altrimenti), su diretta autorizzazione del presidente Usa, sarebbero stati dichiarati morti fino a sette volte e che ben 1.147 altre persone sarebbero state uccise nel tentativo di eliminare 41 obiettivi. Come notavamo in un precedente articolo su questa stessa rivista ( Fare la guerra, con omicidi mirati ), tutto ciò evidentemente solleva pesanti dubbi rispetto alla precisione dell’intelligence alla base degli attacchi letali mediante i droni.
Ma soprattutto, è sconvolgente la mancanza di un dibattito pubblico e politico su queste operazioni. Come ha scritto Agnes Callamard nel 2020, quando era relatrice speciale dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie :
Ciò che è particolarmente preoccupante è l’assenza di un dibattito pubblico sull’etica, la legalità e l'efficacia della strategia di "decapitazione" alla base delle uccisioni mirate con i droni, sul fatto che abbiano o meno l’effetto dichiarato e sulla misura del loro successo, in termini di una visione a lungo termine per la protezione sostenibile delle vite umane e della pace globale. Invece, la guerra è stata normalizzata come la legittima e necessaria compagna della "pace", non come il suo contrario a cui dobbiamo fare tutto il possibile per resistere.
L’assenza di dibattito sugli omicidi mirati dei droni è anche una diretta conseguenza della mancanza di trasparenza e opacità con cui i governi coinvolti si muovono. Non solo gli Stati Uniti, ma anche i governi europei, che giocano un ruolo fondamentale mettendo a disposizione degli Usa infrastrutture e cooperazione – a livello politico, militare e di intelligence. Non vi è dubbio, infatti, che le operazioni letali dei droni Usa sono rese possibili grazie alle infrastrutture della base militare di Ramstein in Germania. L’Italia, dal canto suo, gioca un ruolo di altrettanto rilievo, permettendo ai droni Usa di operare dalla base di Sigonella in Sicilia, nella totale assenza di trasparenza e di dibattito pubblico sul contenuto di tali accordi, che comportano tuttavia una grave responsabilità per il nostro Paese.
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