La balcanizzazione del Sudan. Il 7 febbraio, all’annuncio del risultato del referendum nel Sud Sudan, con il 98,83% dei votanti a favore della secessione, si è conclusa una tappa fondamentale di un lungo processo di pacificazione. Dopo oltre trent’anni di una guerra civile che ha causato milioni di vittime e un numero incalcolabile di rifugiati, il Sudan, Paese ancora molto povero nonostante le sue grandi ricchezze petrolifere, ha raggiunto un traguardo importante. Comunque li si voglia leggere, l’esito del referendum e il suo svolgimento relativamente pacifico rappresentano infatti un risultato sul quale pochi avrebbero scommesso.

Come guardare a questa svolta nella travagliata storia del più vasto Paese dell’Africa? Certo, la nascita del 54° Stato africano – quando da più parti si invoca la necessità che il continente superi le divisioni e rafforzi la propria integrazione regionale – può sembrare uno sviluppo negativo.  D’altra parte, lo stesso accordo siglato sei anni fa dal governo di Khartoum con il Sudan People’s Liberation Movement, il Comprehensive Peace Agreement (CPA), puntava a svuotare di senso l’ipotesi secessionista, attraverso la progressiva soluzione dei punti di contrasto che storicamente hanno contrapposto il Nord islamizzato e in parte arabizzato al Sud nero e in parte cristiano: condivisione del potere politico e delle risorse, risoluzione delle questioni legate alla sicurezza, oltre, naturalmente, alla definitiva cessazione delle ostilità.

Nei sei anni trascorsi dalla firma del CPA, molte delle questioni aperte hanno trovato soluzione, almeno sulla carta, è mancato tuttavia l’elemento essenziale per evitare la secessione: la costruzione di un’autentica fiducia reciproca. Il Sud, o meglio, la leadership politica di Juba, è rimasta convinta che un Sudan unito avrebbe significato la prosecuzione di processi di marginalizzazione e di esclusione, nonostante le chiavi di accesso alle due risorse più importanti del Paese, petrolio e acqua, siano custodite per la gran parte proprio nelle regioni meridionali. Khartoum non è riuscita a fugare quei dubbi e oggi, anche per rafforzare la propria immagine internazionale, è costretta ad accettare un processo dalle ricadute incerte.

A fronte del fallimento del più importante obiettivo del CPA, c’è da chiedersi quale futuro si apra per i due Paesi, dal momento che sia il nascente Sud Sudan sia la stessa Repubblica del Sudan dovranno reinventarsi senza aver davvero risolto tutti i conflitti aperti: si pensi alla questione del Darfur, ancora lontana da una prospettiva di composizione durevole. Ma le difficoltà maggiori non sono forse quelle bilaterali. Non è da escludere, infatti, che proprio la consapevolezza dell’interdipendenza geografica ed economica (il grosso del petrolio si trova a cavallo del confine fra i due Sudan e nel Sud Sudan, ma l’unico oleodotto al momento in funzione sbocca a Port Sudan, sul Mar Rosso) obbligherà i due Paesi a risolvere i problemi aperti dalla secessione. È piuttosto sul piano regionale che si giocherà nei prossimi mesi la scommessa sudanese.

Per capire la portata della posta in gioco è sufficiente ricordare che il Sudan unito confina con nove fra i Paesi più instabili del continente, fra cui la Libia, il Chad, l’Etiopia, l’Eritrea e la Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di Stati che, nel corso della lunga guerra civile sudanese, hanno preso parte in vari modi al conflitto e che oggi sono quindi attenti a valutare vantaggi e svantaggi della secessione. Le grandi manovre diplomatiche delle ultime settimane riguardo a nuove possibili regolamentazioni per lo sfruttamento delle acque del Nilo ne sono forse la prova più evidente. Intorno alla soluzione di questi temi, così come alla capacità delle leadership di Khartoum e di Juba di fronteggiare il compito che le attende, ruota l’esito dell’esperimento: si tratta di dimostrare, non solo ai sudanesi, che i tempi del divide et impera di coloniale memoria sono davvero superati e che il processo secessionistico risponde a un fondato e legittimo desiderio di autodeterminazione, non necessariamente incompatibile con un altrettanto fondato bisogno di integrazione e di collaborazione regionale.