Tra le scrittrici più celebrate del nostro tempo, Joan Didion (1934-2021) ha legato a lungo la propria fama alla produzione di nonfiction degli anni Sessanta e Settanta – Verso Betlemme (1968) e The White Album (1979) su tutti. Ma è poi il grande successo di critica e di pubblico del memoir del 2005, L’anno del pensiero magico, premiato con il National Book Award for Nonfiction, che ne consacra l’opera all’interno del panorama letterario americano. Resoconto terapeutico della perdita del marito, John Gregory Dunne, e della malattia della figlia, Quintana Roo Dunne, il memoir segna l’inizio di una rinascita critica ed editoriale dell’autrice. Mentre nel 2006, Knopf ripubblica nella Everyman’s Library tutta la nonfiction sotto il titolo We Tell Ourselved Stories in Order to Live: Collected Nonfiction, nel 2015, una Didion pluriottantenne, da sempre icona di stile, fa da modella per una pubblicità di occhiali da sole di Céline. Se nel 2013 il presidente Barack Obama le conferisce la National Medal of Arts and the Humanities, il documentario del 2017 Joan Didion. The Center Will Not Hold, girato dal nipote Griffin Dunne e prodotto da Netflix, ne sancisce la popolarità mediatica.
La produzione di Joan Didion comprende, oltre alla nonfiction a cavallo di giornalismo d’autore, saggistica e autobiografia, cinque romanzi scritti tra il 1962 e il 1996 (Run River, Prendila così, Diglielo da parte mia, Democracy, Il suo ultimo desiderio), ma anche, in collaborazione con il marito J. G. Dunne, sceneggiature cinematografiche. Ricorrenti, in una produzione pur così versatile, sono alcune ossessioni tematiche e stilistiche radicate nella storia e nella geografia californiane. Nativa di Sacramento e discendente in linea diretta dei pionieri del Donner-Reed Party, Didion costruisce molta parte della propria opera intorno alla California: dai primi romanzi (Run River, 1962, e Prendila Così, 1970), a gran parte della nonfiction (Verso Betlemme, The White Album, Nel paese del re pescatore, 1992), fino a Da dove vengo, il memoir del 2003 che offre l’ultima rappresentazione delle ambiguità ideologiche e politiche del mito californiano alla luce di una struggente ricostruzione autobiografica.
Ricorrenti, in una produzione pur così versatile, sono alcune ossessioni tematiche e stilistiche radicate nella storia e nella geografia californiane. Didion infatti costruisce molta parte della propria opera intorno alla California
Ultima frontiera del primo Novecento americano – «perché qui, sotto quell’immenso cielo sbiancato, è dove finiamo il continente» – la California è un luogo in cui le narrazioni mitiche di un West intraprendente sono state possibili, secondo la rilettura di Didion, grazie a una storia di sussidi federali massicci alle politiche idrogeologiche del Sud Ovest. In Verso Betlemme, The White Album e La leggenda del re pescatore, lo sguardo dell’autrice rivolta come un guanto tutte le strategie di evasione degli americani di fronte allo sgretolarsi di quelle narrazioni nel secondo Novecento – dalla proliferazione di sette, culti, movimenti hippy all’ipocrisia delle nuove frontiere reaganiane.
A dispetto delle dichiarate simpatie repubblicane degli anni Sessanta e Settanta e di un graduale disincanto nel corso dei decenni successivi, l’ironia – affilata e implacabile – di Didion non è né liberal né conservatrice. La sua analisi, testuale, da brava allieva dei New Critics, dei discorsi pubblici (di media e stampa) americani è sempre intenta a svelare la natura costruita e la funzione politica di tutte le narrazioni nazionali.
Didion appartiene a una generazione di scrittori americani che fanno da anello di congiunzione – o disgiunzione – tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Assorbe così la sopraggiunta erosione della conoscibilità della storia e della legittimità del resoconto documentario centrali ad alcune poetiche del secondo dopoguerra (su tutte, quelle del New Journalism, a cui il suo nome sarà spesso associato). In Verso Betlemme e The White Album, di fronte all’impasse epistemologica del Secondo dopoguerra, la risposta di Didion è di decostruzione delle cronache contemporanee in frammenti poi rimontanti – a mo’ di spezzoni cinematografici giustapposti – in un nuovo racconto che dichiara tutta l’inadeguatezza di narrare una storia intellegibile.
La cifra di Didion produce quindi, al meglio, una sorta di narrazione di tutte le narrazioni già esistenti (si tratti dei Manson Murders, di Joan Baez, delle Black Panthers, di Patricia Hearst). Una narrazione personale e testimoniale: rimontare i fotogrammi delle narratives esistenti si traduce in una sovraesposizione autoriale, un coinvolgimento antropologico nei fenomeni raccontati.
È nel saggio The White Album (1968-78), da cui prende il nome l’omonima raccolta di nonfiction del 1979, che Didion riflette sull’urgenza etica ed estetica di raccontare e raccontarsi delle storie per vivere («We tell ourselves stories in order to live»), in un frangente in cui nessun evento sembra seguire un disegno conosciuto. Alla studiata incertezza autoriale fa da argine un controllo assoluto sulla forma: l’esattezza chirurgica della scrittura come terapia, quasi esorcismo, del trauma non può d’altronde che rimandare a Hemingway, unica influenza letteraria da sempre riconosciuta dall’autrice californiana.
La riscrittura terapeutica di eventi traumatici è il comune denominatore di tutta la produzione di Didion e richiede un esercizio di equilibrio tra empatia e distacco che si traduce in un sottile meccanismo narrativo
La riscrittura terapeutica di eventi traumatici è, in fondo, il comune denominatore di tutta la produzione di Didion e richiede un esercizio di equilibrio tra empatia e distacco che si traduce in un sottile meccanismo narrativo. Nella nonfiction, Didion, “autrice reale”, persona pubblica che scrive della contro-cultura di San Francisco, lo fa senza prenderne mai parte, pur immergendosi nella vita degli hippies di Haight-Ashbury: il distacco è necessario a sopravvivere tanto all’«emorragia sociale» quanto ai propri cortocircuiti psicologici ed emotivi, l’empatia è indispensabile per conoscere l’epicentro della crisi in maniera diretta, senza mediazioni e oltre le narrazioni precostituite. Nella stessa nonfiction, tuttavia, Didion, “autrice implicita”, dichiara che qualsiasi tentativo di conoscere e raccontare storie è minato alla radice: «In questa luce, tutti i collegamenti erano egualmente significativi, ed egualmente privi di senso».
Anche nei romanzi, le protagoniste-narratrici di Prendila così, Diglielo da parte mia, Democracy rispondono, nella loro postura di osservatrici sopravvissute, al ripensamento della modalità testimoniale che si muove, non diversamente da una certa sensibilità postmodernista, verso la ridefinizione delle funzioni narrative di autore, narratore, personaggio. In un romanzo come Democracy, la linea che separa autrice reale, autrice implicita, narratrice e personaggio è mobile e indefinita.
Se l’attraversamento degli eventi del proprio tempo comporta una conoscenza da insider, la resa narrativa di quello stesso attraversamento può darsi solo in una prosa che non lascia, questa sì, niente al caso. In un tributo dell’autrice a Hemingway dal titolo Last Words del 1998 poi raccolto in Let Me Tell You What I Mean (2021) – Ultime parole in Perché scrivo (Il Saggiatore, 2022, traduzione di Sara Sullam) – si legge che «la grammatica stessa di una frase di Hemingway dettava, o era dettata da, un certo modo di guardare il mondo, un modo di guardarlo senza farne parte, un modo di attraversarlo senza attaccarcisi».
Le ultime parole di Didion su Hemingway. E, forse, sulla propria opera.
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