Al giornalista Jérôme Cordelier che nel 2019 gli ha chiesto un’opinione sulla Chiesa, Jacques Gaillot ha risposto che «di solito non guardo alla Chiesa, ma al mondo degli esclusi». Di là una denuncia delle condizioni «inaccettabili» dei senza fissa dimora, privati di tutto ma non della dignità che li accomuna come esseri umani. Poi, «per rispondere alla sua domanda, non mi indigna quello che sento dire sulla Chiesa. Ho sempre preferito il destino degli individui a quello delle istituzioni».
Non un seguace dello scetticismo contemporaneo verso ciò che è istituzionale: quella di Gaillot era piuttosto un’opzione preferenziale, una priorità accordata alle storie dei molti che condividono lo scandalo di una vita al di sotto della sua soglia minima. Il vescovo Jacques Gaillot si è spento il 12 aprile 2023 a Parigi, dove ha sempre risieduto dopo la sua rimozione dalla diocesi di Evreux nel 1995. La sua storia è parte della storia della Chiesa, ma è parte anche di quella storia del magistero ecclesiastico e del papato con cui essa spesso è confusa, e rientra in una più complessa storia dei profili episcopali cattolici e della presenza pubblica del cattolicesimo sociale.
La sua storia è parte della storia della Chiesa, ma è parte anche di quella storia del magistero ecclesiastico e del papato con cui essa spesso è confusa
Jacques Gaillot nasce nel 1935 a Saint-Dizier, una piccola città che è la più grande dell’Alta Marna, a metà strada tra Parigi e Strasburgo, nella Francia della Terza Repubblica, e cresce a cavallo tra il regime di Vichy, Quarta e Quinta Repubblica. Durante quest’ultima, Gaillot è in Algeria a causa del servizio militare, che concorrerà a sviluppare in lui una sensibilità non violenta. Intanto c’era stata la scelta di entrare in seminario per diventare prete cattolico. Poi, gli studi a Roma dal 1960 al 1962 e l’ordinazione presbiterale nel 1961. La nomina a vescovo di Evreux è del 1982.
Gaillot prende possesso della diocesi normanna nella quale risiederà tredici anni. Questo lasso di tempo lo vede impegnato in una «politica attiva» che non è parallela, né sostitutiva, della sua missione pastorale come vescovo, ma conseguenza diretta di questa. Come ha detto nella sua ultima omelia a ordinario di Evreux, «annunciare Dio, oggi, è difendere la libertà dell’uomo, chiunque egli sia». È questa un’idea chiave nel pensiero di Gaillot: cercare Dio implica cercare l’uomo e la donna viventi, l’essere umano che nella sua fatica quotidiana rende presente l’opera del Dio della vita. La medesima convinzione anima tutto l’operato di questo vescovo che si guadagna presto l’appellativo di «chierico rosso»: interviene sull’obiezione di coscienza e il nucleare, opponendosi anche alla linea della Conferenza episcopale; prende parte a diversi movimenti di piazza, in Francia e fuori; sostiene l’ordinazione di uomini sposati; affronta il tema dell’immigrazione, criticando la legislazione francese; non teme l’interessarsi dei media, che gli ottengono una grande visibilità.
È a questo punto che alcune voci già in circolazione diventano realtà: il 12 gennaio 1995 Gaillot è chiamato a Roma per incontrare il cardinale Bernardin Gantin. Come prefetto della Congregazione per i vescovi, Gantin gli offre di dimettersi da vescovo di Evreux o di essere rimosso d’ufficio, ovviamente con l’avallo di papa Giovanni Paolo II, ma anche per un’inefficace gestione del caso da parte dell’episcopato francese, diviso e in difficoltà sulla produzione di elementi che chiarissero la radicalità evangelica che lo animava. Riguardo alla scelta di dimettersi, Gaillot preciserà in un comunicato di aver pensato di avere «buone ragioni per rifiutare». Ciò gli vale la nomina a vescovo di Partenia, una diocesi scomparsa in Mauritania, oggi Algeria. Ma, anche se vescovo in partibus infidelium, Gaillot non sarà mai un vescovo senza popolo: potenzialmente priva di confini, Partenia diventa un territorio aperto a chiunque, soprattutto all’infinito popolo dei marginalizzati. Come ha scritto nel 1996, «voi siete il mondo», in particolare «un mondo come io lo amo, di vasto orizzonte, senza pastoie e senza barriere».
Potenzialmente priva di confini, Partenia – una diocesi scomparsa in Mauritania, oggi Algeria, di cui Gaillot era vescovo – diventa un territorio aperto a chiunque, soprattutto all’infinito popolo dei marginalizzati
Gaillot è appartenuto a una generazione ecclesiale che ha coltivato delle speranze per la Chiesa e per il mondo su impulso del concilio Vaticano II (1962-1965). Di questa generazione e di tali speranze Gaillot è stato rappresentante fino alla fine, nonostante i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato la Chiesa e il mondo post-conciliari. Per il sottoscritto, père Jacques è stato un maestro e un ponte tra persone unite da una sensibilità per la pace e la giustizia nel mondo, ma anche nella Chiesa nel mondo. Mi ha molto colpito, due giorni dopo la sua morte, come un breve scambio con una collega più anziana abbia assunto toni vagamente nostalgici nel condividere la notizia della scomparsa del vescovo di Partenia, e come il suo nome ci abbia stranamente fatto sentire più vicini.
La morte di Gaillot è la morte di uno degli ultimi esponenti di una stagione ecclesiale che ha visto una certa figura di «vescovo» e di «cattolico» inseparabile da una cultura e da una fedeltà alla Chiesa e all’umano alimentate da una «pragmaticità» di fondo. Se e che cosa resti di quell’epoca di storia della Chiesa non è chiaro, ma è evidente la persistenza di un dislivello significativo tra il cosiddetto piano «pastorale» e quello teologico o strutturale. Lo sforzo di Gaillot e di quella generazione ha dovuto vedersela con numerosi tentativi di neutralizzazione, in linea di massima riusciti. Ma non ha adeguatamente messo in conto la «storia degli effetti» di alcune scelte sul cattolicesimo istituzionale più rivolto al sociale. In questo senso, neanche l’incontro con papa Francesco, avvenuto nel 2015, può essere ritenuto risolutivo per quanto riguarda il dislivello tra teoria e prassi nella Chiesa.
Il personaggio Gaillot va compreso anche all’interno del cattolicesimo francese e dei suoi percorsi più recenti. Figlio di una Chiesa che aveva dato un contributo importante al concilio Vaticano II, Gaillot ha agito in un contesto di progressiva exculturazione (per usare un concetto della sociologa delle religioni Danièle Hervieu-Leger) del cattolicesimo che ha rafforzato il tradizionalismo e gli approcci identitari alla religione, non solo nel mondo religioso. Ma la differenza nel modo di leggere gli eventi è evidente: «Questo discorso identitario può essere rassicurante, ma non va al cuore del Vangelo, cioè alla solidarietà con coloro che la società trascura».
Che il Vangelo «non è confinato nell’istituzione ecclesiastica» è il messaggio forte che Gaillot lascia alla società contemporanea e alla Chiesa. Per il vescovo di Partenia, la solidarietà con gli ultimi non consiste in una vaga vicinanza inter-soggettiva che punti a diffondere un modo di relazionarsi improntato alla bontà personale. Piuttosto ha valore di denuncia, prevedendo anche delle forme di impegno pubblico che assumano la rabbia sociale e la trasformino in energia dimostrativa del malessere di chi è costretto a subire l’ingiustizia.
Il mio primo incontro con Jacques Gaillot risale al 2014 a Messina, la mia città natale, dove era stato invitato a tenere alcuni incontri. Ricordo una frase pronunciata in uno di essi: «Ascolto tante cose su Dio e non mi dicono niente; ascolto molte altre cose sull’uomo, quelle sì che mi dicono tanto». Ho letto diversi suoi libri. Nei miei confronti ha sempre mostrato benevolenza. Ci siamo poi rivisti al 30 di rue Lhomond a Parigi, dove risiedeva, nel 2021: il suo lascito è un incoraggiamento, una consegna per ridestare la speranza e aprire il futuro. Il suo motto era una massima del poeta arabo Antara ibn Shaddad: Avance, et tu seras libre.
Riproduzione riservata