24 marzo 2023, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ricordando il settantanovesimo anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, parla di “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”. Replica tempestivamente l’Anpi con il suo presidente Gianfranco Pagliarulo, il quale ricorda che l’italianità non fu la ragione che condusse a morte i 335. Fu semmai il loro essere parte di ciò che il fascismo e il nazismo intendevano estirpare a farne dei colpevoli da togliere di mezzo: colpevoli di aver scelto da che parte stare (come ha opportunamente richiamato Giovanni De Luna su “La Stampa”), colpevoli di essere ebrei (una “razza parassita” da eliminare), colpevoli di essere politicamente sospetti. Colpevoli alla cui attribuzione di colpevolezza avevano contribuito uomini e apparati italiani, e che vennero consegnati ai nazisti da carcerieri italiani. Non era l’italianità ciò che condannò i 335, ma il loro essere, o venire considerati, nemici ancor più che colpevoli.
Non paga della deformazione pseudo-patriottica contenuta nella nota diffusa il mattino, da Bruxelles Meloni rivendica e replica dinanzi alle telecamere: “Li ho definiti italiani, ma che vuol dire, che gli antifascisti non sono italiani? Mi pare onnicomprensivo storicamente”. La parte in copione è assolta: la presidente del Consiglio innesca l’ennesima baruffa intorno alla sua presunta afasia antifascista.
Mentre si inseguono dichiarazioni critiche dall’opposizione e manganellate polemiche dalla destra, noi – spettatori esausti di queste periodiche e ripetitive baruffe, di queste ricorrenti e stantie messe in scena di una polemica politica che non riesce a catturare l’attenzione dei cittadini, spettatori preoccupati, sconcertati e scandalizzati della manipolazione e falsificazione dei tragici eventi all’origine della nostra Repubblica democratica da parte di chi istituzionalmente dovrebbe mostrare misura, rigore e stile, oltre che verità – che cosa ricaviamo da tale ritualità politico-giornalistica?
Innanzitutto che la prima vittima di guerra (la guerra delle memorie e delle identità) è la verità storica, quella dei fatti: tra i 335 delle Ardeatine vi sono esponenti della Resistenza, poco meno di una novantina, in gran parte azionisti e aderenti al gruppo comunista romano “Bandiera rossa”, ma anche socialisti, democristiani e liberali, cui si aggiungono numerosi appartenenti al Regio esercito componenti il Fronte militare clandestino. Ad essi si sommano un centinaio di detenuti politici, accusati di attività antifascista, almeno una settantina di ebrei romani, nonché altre figure sconosciute, ovvero di rastrellati nei pressi di via Rasella e di detenuti comuni a Regina Coeli. Insomma, i 335 costituiscono la somma delle diverse tipologie di uomini che nazisti e fascisti guardano come nemici da eliminare, e che per questo vengono immediatamente identificati senza tentennamenti come soggetti certi e predestinati della rappresaglia, di cui sono a conoscenza non solo i comandi tedeschi, ma anche le gerarchie fasciste, compreso Mussolini.
La verità storica ci dice che le 335 vittime costituiscono la somma delle diverse tipologie di uomini che nazisti e fascisti guardano come nemici da eliminare
In secondo luogo, che questo episodio è solo un esempio del tentativo in atto di definire e proporre un nuovo paradigma politico di legittimazione della destra italiana, dopo quanto tentato da Gianfranco Fini tra il congresso costituente di Alleanza nazionale del gennaio 1995 e il viaggio in Israele nel novembre 2003, quando definì il fascismo come “male assoluto”. La presidente del Consiglio lo ha delineato nel suo Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021): contro il “racconto superficiale della storia”, fondato sulle rappresentazioni unidimensionali che propongono una distinzione manichea tra buoni (antifascisti) e cattivi (fascisti), è oggi finalmente possibile approdare a una visione del passato ricomposta in prospettiva nazionale. La fine della Guerra fredda ha consentito il superamento dell’endiadi fascismo/antifascismo, finalmente sostituita da quella totalitarismo/antitotalitarismo, dando via libera alla riscoperta del patriottismo: la destra si emancipa dall’abbraccio asfissiante con l’eredità fascista e con il suo nazionalismo aggressivo, la patria torna a essere un luogo retorico legittimo del linguaggio politico, l’appartenenza e l’identità religiosa divengono componenti essenziali dell’identità nazionale ed europea – l’Europa intesa come “comunità di nazioni”, “l’Europa delle Patrie, ma Patria anch’essa”, vagheggiata da de Gaulle e auspicata da Almirante. Il lungo dopoguerra è consegnato agli archivi, esauritasi una storia, ne può iniziare una nuova, di cui il governo Meloni ambisce senza dubbio a costituire l’avvio.
Inoltre, sembrerebbe a questo punto inutile pretendere dalla leader nazional-patriottica, che rivendica la “ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico” maturata nei Settanta, la pronuncia di antifascismo. Forse, più realisticamente, le si potrebbe chiedere di ammettere, con un poco di generosità intellettuale e di riconoscenza politica, che il suo patriottismo può trovare oggi legittimità anche grazie al contributo che uomini di Stato provenienti dalle fila del fronte politico opposto hanno fornito al suo sdoganamento, proponendo dagli anni Novanta in poi un’improbabile “memoria condivisa” frutto di una pacificazione tra (ex)nemici.
Quando cioè si è inteso sublimare la crisi del sistema politico-istituzionale italiano con l’auspicio della modernizzazione del Paese, per la quale si rendeva indispensabile l’approdo a valori nazionali ampiamente condivisi. Si è allora avviato un processo di naturalizzazione dell’identità patriottica, come se l’appartenenza a una comunità fosse spontanea e data a priori, e non frutto di un complesso processo culturale e sociale di identificazione in essa. Con il risultato di proporre una irenica storia a-conflittuale, in cui le fratture sarebbero sempre superate dalla capacità degli italiani di trovare punti di convergenza e coesistenza proprio nell’italianità, schizzando una storia con tratti fiabeschi, centrata sul lieto fine degli esiti e sempre più opaca nel suo svolgimento, sino a renderne confusi i contorni divisivi. I 335 delle Ardeatine divengono così, nel comunicato della presidenza del Consiglio, dei “martiri” innocenti, coloro che hanno suggellato col sacrificio della vita la confessione dell’italianità, la loro appartenenza alla comunità nazionale.
Sullo sfondo di questa dichiarazione, con la sostituzione dell’identità italiana all’identità antifascista, si profila un implicito attacco alla Resistenza
Sullo sfondo di questa dichiarazione, con la sostituzione dell’identità italiana all’identità antifascista, si profila un implicito attacco alla Resistenza. Lo annuncia il deputato Antoniozzi, affermando che, “come dicono ormai tutti i grandi storici di sinistra, e come scrisse De Felice, l’azione di via Rasella non fu un atto di guerra”. Sebbene non sia dato sapere chi siano gli storici di sinistra in questione, certo si informa dell’onore delle armi (storiografiche) che da essi sarebbe concessa al biografo di Mussolini, di cui peraltro si assume una discutibile affermazione alla stregua di una certezza conclamata (forse richiamandosi alla più che controversa sentenza del processo Kappler del 1948, che lo condannò per i cinque uccisi in eccedenza piuttosto che per i 330 massacrati brutalmente?). Ma chi più di altri punta dritto alla delegittimazione dell’azione partigiana, concentrando in poche righe tutti gli stereotipi della memoria di destra della strage, è Sallusti, il quale, sulle pagine di “Libero”, scrive che “le Ardeatine furono l’applicazione di una nota direttiva tedesca che prevedeva l’uccisione per rappresaglia di dieci italiani per ogni soldato tedesco che fosse stato vittima di attentato”; “che quella di via Rasella fu l’attentato più inutile e stupido della storia della resistenza, che quei 335 italiani, antifascisti e non, trucidati per rappresaglia pesano come un macigno anche sulla loro coscienza”; che “nessuno degli ideatori e degli esecutori dell’attentato ebbe il coraggio di consegnarsi ai tedeschi per evitare la rappresaglia. Anzi, alcuni di loro fecero poi una discreta carriera politica nelle fila del Partito comunista”. Con ciò ignorando, o fingendo di ignorare - è lecito dubitare della buona fede, poiché si tratta di un evento ampiamente noto, abbondantemente discusso e studiato, da ultimo in un fortunato ed esemplare libro di Alessandro Portelli più volte ristampato - che le Ardeatine sono la prima grande strage di rappresaglia in Italia ad annunciare il modus operandi in reazione ai colpi partigiani, ed è proprio in questa occasione che Kesselring fissa la proporzione di 1 a 10 per la ritorsione punitiva e di vendetta; che della rappresaglia i romani vennero informati quando l’ordine era già stato eseguito, senza che vi fosse stata alcuna preventiva richiesta di consegna degli autori dell’azione partigiana in cambio delle vite degli ostaggi. Appare inoltre eccessivamente disinvolto – e, francamente, irritante e provocatorio, benché non originale, trattandosi di un cliché consolidato delle posizioni antipartigiane e anticomuniste – lo spostamento della responsabilità della strage da chi concretamente la operò a chi aveva deciso di affrontare nazisti e fascisti con le armi, restituendo la dignità nazionale e rivitalizzando l’onore del Paese proprio affrontandoli sul terreno militare. Del resto, è evidente che l’obiettivo ultimo della polemica è la Resistenza in sé, e la Resistenza “rossa” in particolare, quella che tra i suoi ispiratori e combattenti ebbe i comunisti. Che si intende delegittimare con l’attribuzione loro della responsabilità della morte di “italiani innocenti” in nome di un corporatismo identitario che, sotto i panni del patriottismo, occulta i legittimi e fisiologici conflitti sociali e politici, di valori e di principi, dell’Italia attuale.
Che tutto questo sia il preambolo di ciò che dobbiamo attenderci il 25 aprile ormai prossimo?
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