Il 13 luglio 2020 è stato un giorno importante per Trieste e per il futuro dei rapporti fra la Repubblica italiana e la Repubblica di Slovenia. Il presidente Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor si sono recati per la prima volta assieme a onorare due luoghi simbolo delle memorie contrapposte dalle sanguinose contese della prima metà del Novecento in area giuliana: la Foiba di Basovizza e, non lontano, il cippo sul luogo della fucilazione dei 4 irredentisti slavi condannati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nel 1930.
Al centro della giornata, tuttavia, è stata la commemorazione di quanto avvenne cento anni fa a Trieste, quando il 13 luglio 1920 squadre di azione fasciste, sobillate da Francesco Giunta, dettero alle fiamme il Narodni dom, il palazzo divenuto emblema dello slavismo cittadino di matrice borghese.
Quell’incendio divenne col tempo simbolo della violenta snazionalizzazione attuata dai fascisti ai danni dei sudditi del Regno d'Italia di madrelingua slovena e croata. È stato giusto e doveroso ricordare quella vicenda, perché testimonia drammaticamente come l’Italia liberale, prima di cadere essa stessa preda del totalitarismo fascista, non seppe affrontare il nodo di integrare come cittadini donne e uomini che nutrivano altre aspirazioni nazionali nel quadro dello Stato di diritto e di istituzioni democratiche. Lo seppe invece fare, pur non senza ritardi attribuibili ai condizionamenti della Guerra fredda, l’Italia post-bellica grazie alla Costituzione repubblicana.
Il riconoscimento di diritti collettivi ai cittadini che si sentono sloveni e vogliono esprimersi in sloveno si è pur tardivamente realizzato nella legge n. 38 /2001, dopo un percorso lungo e tortuoso. Il principio ordinamentale a cui la legge 38 si ispira venne paragonato dal senatore Demetrio Volcič, con felice metafora, a una fontana in una piazza alla quale chiunque possa accedere per calmare la propria sete. E ciò senza che a nessuno sia permesso di sindacare sul tasso di slovenità nelle vene di chi sceglie di esercitare il diritto alla tutela della sua lingua o identità.
Ne conseguì che la lingua slovena oggi non solo è protetta, ma attrae. Il diritto a usarla non solo non è più vissuto come concessione, bensì come opportunità. Oggi iscrivono i propri figli alle scuole statali con lingua d’insegnamento slovena anche coppie di genitori miste e famiglie nelle quali si parla anche solo l’italiano. Inoltre, il numero di cittadini italiani slovenofoni che non si sentono, in ciò, per nulla menomati nei riguardi dei cittadini della Repubblica di Slovenia è sempre più cospicuo. L’identità nazionale sul confine non perde affatto di rilievo, ma semmai si arricchisce di significati plurali: sloveni, triestini ma anche italiani ed europei, come è normale che avvenga in contesti di fatto riconciliati. Certo, questo è avvenuto perché anche la rappresentanza degli sloveni si è sempre espressa sino ad oggi in via precipua attraverso i partiti nazionali, e nelle scelte di voto contano anche gli interessi e i convincimenti che gli sloveni possono o meno condividere con gli altri cittadini, a prescindere dai loro sentimenti nazionali. A Roma c’è sempre stato uno o una parlamentare di lingua slovena.
Questa realtà, l’assetto istituzionale su cui essa si regge, rischia di essere incrinata. L’intesa firmata al cospetto dei due presidenti prevede il passaggio di proprietà dell’edificio di via Filzi dal demanio dello Stato a una fondazione costituita dalle due leghe associative – laica e cattolica – della minoranza linguistica e nel cui consiglio siederanno come rappresentati dei due Stati un funzionario del ministero degli Interni e il console generale della Repubblica di Slovenia. L’edificio di via Filzi rischia di non essere più ciò che la legge di tutela prevede debba essere: un luogo di proprietà del demanio statale dove possano trovare spazio istituzioni culturali e scientifiche di lingua slovena, in primo luogo la Biblioteca nazionale e degli studi slovena di Trieste, sinora costretta in spazi esigui e di lingua italiana.
È vero che dal 2001 quanto disposto dall’art. 19 legge di tutela non si è attuato completamente. Quello che viene ora proposto dall’intesa non ne è però l’attuazione. È semmai un rovesciamento. Da luogo di incontri tra culture e lingue diverse, aperto a tutti i cittadini italiani di lingua slovena e non solo (la fontana di Volcič), l’edificio di via Filzi rischia di divenire un luogo dove due Stati e le organizzazioni che ne diverranno proprietarie negoziano chi e che cosa vi si possa svolgere. Due organizzazioni, va notato, di cui si può dire che rappresentino politicamente la minoranza tanto quanto potrebbero rappresentare gli italiani in generale le due associazioni che raggruppano le cooperative rosse e bianche.
Come vi si è giunti a questa soluzione? Lo ha spiegato in un intervento, pubblicato alla vigilia dello storico incontro triestino, l’ex-segretario di Stato agli Affari esteri sloveno Iztok Mirošič, già ambasciatore della Repubblica di Slovenia in Italia, il quale ha attribuito alla diplomazia slovena il merito – e a sé il vanto – di aver saputo cogliere al balzo l'opportunità, offerta su un piatto d’argento, dalla esigenza del governo Gentiloni di raccogliere più voti possibili tra gli stati membri dell’Ue per portare a Milano l’Agenzia del Farmaco a seguito della Brexit. Lo scambio fu formalizzato nell’incontro dei due ministri degli esteri – Erjavec e Alfano – il 9 novembre del 2017, a Roma. L’intesa contemplava, fra altri impegni da parte italiana, quello a “una sollecita attuazione dell’art. 19 della legge di tutela” con “il restauro e la restituzione del Narodni dom di Trieste entro il 2020.” Come poi andò a finire, quanto all’Ema, lo sappiamo.
Non siamo stupiti della proposta slovena. Nell’Unione europea gli scambi e le negoziazioni tra gli Stati su materia di reciproco interesse fanno parte delle procedure decisionali previste. Siamo invece meravigliati come da parte italiana non si sia capito o, se si è colto il senso della proposta slovena, sia sembrato irrilevante il fatto che lo scambio riguardasse due ambiti che dovevano rimanere distinti. Quello diplomatico e quello dei diritti dei cittadini italiani di lingua slovena che fanno capo non ad accordi bilaterali tra l’Italia e la Slovenia ma all’ordinamento interno e ai principi universali ai quali esso si ispira. Detto altrimenti, una singolare cessione di sovranità da parte dell’Italia, non all’Unione europea, ma alla Slovenia in un ambito delicatissimo, quale è il rispetto dei diritti dei suoi cittadini.
È evidente il rischio di ridurre i diritti di entrambe le minoranze, quella slovena in Italia e quella italiana in Slovenia, a merce di scambio diplomatico, e le minoranze stesse ad oggetto di invadente patronaggio, quando non addirittura al ruolo di ostaggio. Al riguardo non meraviglia il sostegno a questa impostazione espresso dalla Lega, visto l’approccio orbaniano che la ispira. Colpisce, e molto, il silenzio del Pd.
È da augurarsi che in sede di eventuali – sperabilmente non improvvide – modifiche alla legge di tutela non se ne intacchi l’impianto universalistico di fondo, e che nella specifica disposizione relativa al Narodni dom di via Filzi non venga disattesa la vigente previsione che ne impone l’utilizzo a fini culturali e scientifici linguisticamente plurali.
Bisogna dunque essere molto grati al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l'auspicio, da lui espresso a Trieste, che il Narodni dom, anche nelle condizioni che si prospettano, continui a fungere da piattaforma di “dialogo tra le culture che rendono queste aree di confine preziose per la vita dell’Europa”.
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