I terremoti sono imprevedibili. Ma, nelle aree che vi sono esposte in base alla probabilità del loro verificarsi in un dato arco di tempo (50 anni), è possibile limitarne sensibilmente gli effetti sugli edifici, graduando gli interventi preventivi di miglioramento e risanamento in ragione del tempo e dei materiali di costruzione (vulnerabilità) e della densità o meno degli abitati (esposizione).
Il Rapporto prodotto nell’ambito del progetto Casa Italia ci dice che il 35,7% dei comuni italiani, comprese alcune grandi città (Messina, Catania, area napoletana), si trova in aree a elevata o media pericolosità sismica (zone 1 e 2), e che l’estensione della vulnerabilità degli edifici è dovuta al fatto che 21,5 milioni di unità abitative risultano edificati in epoca antecedente alla messa a punto delle prime regole di costruzione antisismica, che risalgono al 1980. Per capire meglio, basti considerare che il 41% degli edifici scolastici è in zona 1 e 2, con l’aggravante che quasi la metà risale a prima del 1976, mentre circa 80.000 edifici residenziali, corrispondenti a quasi 240.000 interni abitativi, si trovano nelle zone a più elevata pericolosità. Purtroppo i problemi non finiscono qui, perché in Italia – anche a prescindere dalla genetica compenetrazione tra beni culturali, paesaggio e ambiente di cui discute nel suo intervento Bruno Zanardi – è materialmente impossibile intervenire su un qualsiasi territorio senza coinvolgere anche importanti elementi del patrimonio culturale: gli eventi sismici del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, ad esempio, hanno danneggiato o distrutto più di 6.500 edifici vincolati o comunque soggetti alla disciplina del Codice dei Beni culturali.
Mettervi mano è dunque un’impresa ciclopica; e ancor più è farlo in chiave di prevenzione e di contenimento degli effetti, perché, se si eccettuano le normative antisismiche per la costruzione di nuovi edifici appena ricordate, fino ad oggi si è seguita la strada opposta e ci si è concentrati sulla fase successiva all’evento, vale a dire sugli interventi d’urgenza della protezione civile, peraltro di livello generalmente più che apprezzabile, e sulle misure per la ricostruzione.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 2/18, pp. 300-306, è acquistabile qui]
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