Abbattuto il muro della paura. Sono trascorse più di tre settimane dall’inizio della rivolta turca. A Istanbul, la polizia presiede la vasta area che comprende piazza Taksim e Gezi Park, il parco dal quale lo scorso 28 maggio si è sollevata la protesta che, scaturita dall’abbattimento dei suoi alberi in favore di un centro commerciale, è presto divenuta sintomo del malcontento generale nei confronti dell’amministrazione Erdoğan, giunta al suo undicesimo anno consecutivo.
Oggi, all’interno di questo perimetro non rimane traccia dell’esperienza delle ultime settimane; infatti, con una violenta operazione iniziata al tramonto di sabato 15 giugno e conclusasi la sera del giorno seguente, le forze dell’ordine hanno eliminato tende, stand, striscioni e ogni altra traccia dell’occupazione pacifica che nelle ultime settimane avevano reso il parco teatro di incontri e dibattiti tra migliaia di persone giunte da tutta la città e dall’interno Paese. Oggi Gezi Park è blindatissimo ma ciò non scoraggia il popolo turco a portare avanti la protesta sotto nuove forme.
Diverse analisi hanno accostato la protesta turca al maggio francese, alla primavera araba, al movimento occupy, agli indignados e alle recentissime manifestazioni in Brasile, sottolineando che qualcosa si sta movendo su scala mondiale. Ma occorre innanzitutto riflettere sulla peculiarità di questo fenomeno analizzandolo nella sua specificità locale.
Le manifestazioni di Istanbul, Ankara, Izmir, Bursa, Adana, Antalya, Eskişehir e molte altre città hanno abbattuto il muro di paura che teneva a freno la società turca da più di trent’anni, paura di esporsi politicamente e manifestare il proprio dissenso ad alta voce. Nel 1980, con il colpo di Stato del 12 settembre, l’esercito turco inaugurò un regime che aveva tra gli obiettivi primari la depoliticizzazione della società, la lotta contro ideologie considerate non compatibili con quella di Stato, e il divieto di attività politiche di ogni tipo. I militari abbandonarono l’arena politica tre anni dopo, non senza aver riformato radicalmente le istituzioni e lasciando aperta una profonda ferita fatta di arresti, torture, desaparecidos, condanne a morte ed esecuzioni capitali. Tre settimane fa, per la prima volta da allora, il popolo turco ha cominciato a scendere in piazza nuovamente.
Se consideriamo l’occupazione di Gezi Park come punto di partenza delle proteste dilagate nell’intero Paese, è possibile affermare che a dare inizio alla rivolta siano stati i giovani e i giovanissimi, quelle generazioni nate durante e dopo il regime e che secondo la giunta militare sarebbero dovute crescere senza coscienza politica. Avevano fatto male i conti, i militari. Ragazzi determinati e coraggiosi hanno ispirato altri loro coetanei, attirando in piazza anche i molti ventenni e trentenni che in Turchia sono cresciuti sentendosi ripetere all’infinito aman yavrum, siyasete karışma (ti prego, figlio/a, non immischiarti nella politica). Questi hanno finito per dare l’esempio anche ai meno giovani, agli adulti segnati dal trauma del regime, appunto quei genitori che fino a poche settimane fa tenevano alla larga i figli dalla militanza.
Secondo alcuni sondaggi effettuati durante le proteste (uno promosso dall’università di Istanbul Bilgi e l’altro dal Centro di Ricerche MetroPoll di Ankara), più della metà dei manifestanti è costituita da under 30: il 39,6% ha un’età compresa tra i 19 e i 25 anni, seguito da un 24% di giovani tra i 26 e i 30. La difesa di democrazia e libertà emerge come il motivo principale che ha spinto gli intervistati a unirsi alla protesta (42,9%), seguito dalla richiesta di giustizia per i manifestanti arrestati nei giorni precedenti (36,6%) e dalla tutela del Gezi Park in quanto parco pubblico (27,1%). A livello prettamente politico, la metà (50,6%) dei manifestanti non si sente vicina ad alcun partito e, infine, il dato forse più significativo è che il 70,4% delle persone scese in piazza in questi giorni dichiara di partecipare a proteste e manifestazioni per la prima volta.
A manifestare sono tutte le generazioni, non c’è distinzione di classe, convivono diversi background culturali e le più lontane visioni politiche. Non è un’ideologia a spingere le persone in strada, non sono la lotta di classe né tanto meno gli scritti di Sartre o Camus, bensì l’impossibilità di poter scegliere liberamente per il proprio futuro di fronte a un governo sempre più autoritario e conservatore. Sono le prospettive sempre più limitate in un Paese che è di tutte e di tutti ma che sembra diventare progressivamente proprietà privata dell’establishment.
Il popolo turco ha ritrovato coraggio, sta riscoprendo un’identità politica e sta sperimentando nuove forme di lotta e condivisione. Nonostante gli attacchi, gli sgomberi, gli arresti e l’escalation di violenza di cui la polizia ha dato prova fino a pochi giorni fa, nonostante le dichiarazioni del premier mirate a demonizzare i manifestanti e la protesta, migliaia di persone hanno cominciato a riunirsi in altri parchi cittadini per decidere come andare avanti. Gezi Park è blindato, ma la partita è tutt’altro che chiusa.
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