Niente crisi, niente rottura. Chi pronosticava – o almeno temeva – un esito disastroso per il viaggio di Recep Tayyip Erdoğan a Bruxelles di martedì, il primo dal 2009, è stato smentito dai fatti; il premier turco, accompagnato da una nutrita delegazione ministeriale, ha infatti incontrato i presidenti del Consiglio europeo Herman van Rompuy, della Commissione europea José Manuel Barroso e del Parlamento europeo Martin Schulz in un clima di propositiva cordialità. La Turchia ha riaffermato la sua voglia d'Europa, l'Europa il suo impegno nei negoziati di cui – ha ribadito una volta di più van Rompuy nella conferenza stampa congiunta – il fine ultimo è “l'accesso”, la membership piena.
Il rilancio del processo di adesione, quasi bloccato negli ultimi anni soprattutto a causa del veto tedesco e francese, si è così compiuto nell'arco di pochi mesi: il 5 novembre è stato aperto – il primo dal 2010 – un nuovo capitolo negoziale, il 22 sulle politiche regionali; il 17 dicembre è stato poi siglato l'accordo di riammissione e contestualmente avviato l'iter per la liberalizzazione dei visti a cui sono ancora sottoposti i cittadini turchi, con evidente discriminazione; il 21 gennaio, Erdoğan ha espresso la volontà di accelerare i tempi, dopo “tre anni e mezzo di stagnazione”, con “l'apertura dei capitoli 23 e 24”: quelli decisivi in materia di diritti e libertà fondamentali, quindi sul futuro democratico di Ankara. Anche Barroso, di fronte ai giornalisti, ha reso esplicita “la volontà di fare passi in avanti”.
I timori dei pessimisti non erano però infondati: il viaggio di Erdoğan, in calendario però da tempo, si è infatti svolto in una fase particolarmente turbolenta della transizione turca verso la democrazia, la “rivoluzione silenziosa” a cui ha fatto riferimento il premier nel suo intervento. Lo scandalo corruzione scoppiato – con arresti eccellenti – proprio il 17 dicembre, la sostituzione dei quattro ministri più o meno direttamente implicati, soprattutto l'intervento deciso del governo che ha rimosso magistrati e ufficiali di polizia responsabili dell'inchiesta – bollata come “complotto – e ha velocemente promosso una riforma che apparentemente mina l'indipendenza dell'Hsyk (il Consiglio superiore dei magistrati e procuratori, una sorta di Csm), hanno spinto le opposizioni – e qualche commissario di Bruxelles – a esprimere riserve sulla tenuta democratica della Turchia e sulla compatibilità delle misure adottate con gli standard europei.
Negli incontri bilaterali e in quello con i presidenti dei gruppi parlamentari, Erdoğan è stato bersagliato da domande e obiezioni ma apparentemente se l'è cavata bene: Schulz si è complimentato pubblicamente per “la franchezza e la dovizia di particolari” con cui ha risposto; Barroso ha preso atto delle assicurazioni ricevute – sullo stato di diritto e sulla separazione dei poteri come obiettivi fondamentali e irrinunciabili – e si è professato fiducioso su come “il governo [turco] affronterà rapidamente i punti sollevati”. Dal canto suo, il leader dell'Akp si è lamentato di come a Bruxelles manchino informazioni attendibili e complete su quanto sta avvenendo in Turchia, ha rimarcato come all'indipendenza della magistratura deve corrispondere la sua completa imparzialità (ed è comunque sottoposta al potere del popolo, “il potere supremo”), ha riservato qualche frecciata a chi in seno all'Ue ha preferito esprimersi – in un modo considerato affrettato – sui social networks e non attraverso i canali istituzionali.
Nei colloqui si è anche parlato della catastrofe umanitaria e della necessità di una svolta politica in Siria, dei negoziati per la riunificazione di Cipro e della proposta federale avanzata da Ankara, del golpe in Egitto, dei rapporti economici e del corridoio energetico meridionale di cui la Turchia rappresenta l'elemento cruciale, di lotta al terrorismo. Gli interessi in comune sono molti e di primaria importanza, ma il destino europeo della Turchia non è così scontato e dipenderà – ha spiegato Erdoğan – dai risultati ottenuti. Già le prossime settimane potrebbero assumere un'importanza cruciale, con la visita di François Hollande – la prima ufficiale di un presidente francese dopo 22 anni – in Turchia, quella immediatamente successiva di Erdoğan in Germania. L'obiettivo è palese: la revoca dei veti e l'apertura dei capitoli negoziali più delicati e rilevanti; “se i risultati non arriveranno, la Turchia cambierà strada”: più che una minaccia, un'espressione di sedimentata frustrazione per i 51 anni spesi “ad aspettare davanti alla porta”.
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