La Turchia, l’Europa, i rifugiati. I profughi siriani hanno iniziato ad arrivare in Turchia a partire dall’aprile 2011. L’accoglienza a braccia aperte riservata da Ankara a quanti fuggivano dal brutale conflitto in atto in Siria, si fondava sulla convinzione delle autorità turche che il regime di Bashar al-Assad, così come già avvenuto in Libia per Muammar Gheddafi, sarebbe stato rovesciato in tempi brevi. Con il passare dei mesi la leadership turca ha dovuto però prendere atto del proprio errore di valutazione e mentre l’interferenza della Turchia nella crisi siriana a favore del «campo sunnita» diventava sempre più esplicita, la «linea rossa» posta dal governo sul numero massimo di profughi da accogliere andava costantemente modificandosi, passando dai 25 mila dell’aprile 2012 agli oltre 2 milioni e mezzo di oggi.
La Turchia è stata Paese di transito verso l’Europa per profughi e migranti provenienti da Asia, Africa e Medioriente fin dagli anni Ottanta. Attualmente in territorio turco si contano oltre 110 mila migranti di nazionalità iraniana, irachena, afghana e somala, le cui condizioni di vita sono caratterizzate da uno status legale incerto, da una limitazione all’accesso ai diritti e alle libertà fondamentali, come pure da costanti discriminazioni. Tale situazione è dovuta al fatto che la Turchia ha firmato la convenzione di Ginevra del 1951 avvalendosi di una riserva geografica e non concede lo status di rifugiato ai richiedenti asilo che provengono da Paesi che non fanno parte del Consiglio d’Europa.
Queste persone non hanno accesso ai servizi pubblici e alla possibilità di lavoro regolare ma possono restare in Turchia e attendere, dopo aver presentato la domanda d’asilo all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), di essere accettati da un Paese terzo.
Del tutto diverso il caso dei profughi siriani. Il governo turco li ha definiti «ospiti» fin dal loro primo arrivo, dichiarando ufficialmente che avrebbe assegnato loro uno status del tutto particolare, facendoli rientrare in un «regime di protezione temporanea». Questa decisione, che sarebbe motivata dagli arrivi avvenuti in massa in un arco di tempo ristretto, priva però i migranti siriani della possibilità di presentare domanda individuale d’asilo in Paesi terzi restando in Turchia. La condizione di «ospite sotto protezione» prevede per tutti i cittadini siriani registrati nel sistema nazionale di accedere ad alcuni servizi sanitari e all’istruzione. Più recentemente – come riflesso dei negoziati sui rifugiati avviati con l’Unione europea – è stata introdotta anche una normativa che prevede un più facile accesso per i migranti siriani al lavoro regolare.
Tuttavia, mentre coloro che abitano nei 25 campi governativi sparsi in 10 province turche – si parla di 260 mila persone – hanno delle condizioni di vita relativamente migliori, altre migliaia si trovano costretti a vivere in edifici abbandonati e fatiscenti, adattandosi a lavori sottopagati e in nero. Molte volte sono gli stessi bambini a provvedere al sostentamento delle famiglie e infatti la scolarizzazione dei bambini siriani che vivono al di fuori dei campi si attesta attorno a un misero 17%. Alcune Ong hanno inoltre denunciato la pratica diffusa per cui donne e bambine siriane – la cui età può scendere fino ai 12 anni – si trovano a diventare illegalmente seconde o terze «mogli» di uomini turchi, in cambio di denaro intascato da mediatori.
Le numerose difficoltà riscontrate quotidianamente dai profughi, unite all’impossibilità di immaginare un futuro in Turchia, sono alla base della decisione che ha spinto migliaia di siriani a partire dalle coste turche per raggiungere la Grecia, a costo della vita. Le partenze hanno inevitabilmente alimentato il settore del traffico di persone negli ultimi anni, gestito sia da vere e proprie organizzazioni mafiose sia da piccoli gruppi di trafficanti con l’appoggio di una rete di amicizie e conoscenze.
Le autorità turche hanno a lungo considerato la questione siriana come un problema transitorio. La Turchia ha sempre respinto anche l’aiuto delle organizzazioni internazionali con più esperienza nella gestione di situazioni d’emergenza – anche perché non gradiva la presenza di osservatori esterni – così come ha sostenuto le spese per i profughi autonomamente. Quando Ankara ha capito che il «problema» non era transitorio, ha iniziato a utilizzare la questione dei profughi come una carta per avere concessioni dall’Unione europea, dimentica dei propri «valori fondanti» e terrorizzata di perdere benessere e stabilità di fronte alle migliaia di profughi.
Il controllo del flusso dei migranti è diventato in ultima istanza oggetto di contrattazione tra l’Ue e la Turchia a partire dallo scorso autunno. Ma le concessioni politiche (esenzione del visto per i cittadini turchi in Europa e accelerazione di quel processo di integrazione nell’Unione iniziato nel lontano 2005) ed economiche (3 miliardi di euro, almeno inizialmente, destinati ai profughi) prospettate da Bruxelles per Ankara, in cambio della riammissione di migranti irregolari e dell’impegno a bloccare le partenze, risultano estremamente problematiche.
Da parte europea il rischio consiste nell’avallare implicitamente le politiche autoritarie di Ankara: la limitazione e la censura alla libertà di espressione e di stampa nonché lo stato di controllo poliziesco e militare sempre più presente nelle province sudorientali a maggioranza curda dove è in corso una vera guerra civile tra le forze di sicurezza turche e il Pkk curdo, e dove vengono denunciate pesanti violazioni dello stato di diritto.
Da parte turca, invece, è noto che nel processo di adesione all’Ue, l’apertura di nuovi capitoli negoziali non determina di per sé un automatico avanzamento del processo di integrazione. Per la questione «visti», invece, sebbene il governo abbia già annunciato che da giugno i turchi saranno esenti dal visto Schengen, i meglio informati sanno che in realtà non è affatto un risultato a portata di mano perché per ottenere una tale concessione la Turchia deve prima conformarsi a 72 requisiti posti dall’Unione.
Questo genere di annunci, tuttavia, può però essere sempre utile per attrarre consensi, considerando il fatto che il Paese si sta preparando a un referendum per approvare una nuova Costituzione con il sistema presidenziale «alla turca» voluto da Erdoğan. Beninteso, con il contributo dell’Unione europea e a spese dei profughi.
[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]
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