La vittoria della coalizione di destra in Israele è netta e incontrovertibile. Nessun dato aggiuntivo potrà quindi trasformarne gli echi di fondo di un tale stato di cose. Che ci dicono alcune cose, sulle quali è necessario riflettere. La prima è che il successo elettorale è consegnato a uno scarto di poche migliaia di voti. In altre parole, a fronte di 4.793.641 elettori (su un totale di 6.778.804 aventi diritto), con una bassissima percentuale di voti bianchi o invalidati (lo 0,62%), in ragione della legge elettorale proporzionale, che pone una soglia di sbarramento del 3,25% alle liste che si presentano al riscontro delle urne, la differenza tra le due coalizioni, quella di destra e quella anti-Netanyahu, è stata di 28 mila voti a favore della prima.

In sostanza, le destre – meglio usare il plurale – riconfermano il loro seguito elettorale, con alcune differenze e compensazioni (ad esempio, il fatto che una parte di giovani elettori ultraortodossi abbia scelto il Partito del sionismo religioso, di contro ai partiti religiosi propriamente detti). La vittoria personale di Benjamin Netanyahu, che consegna al suo partito Likud il 23,41% dei voti e 32 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano, è tangibile ma non fa da sé la vera differenza.

La quale, ed è la seconda considerazione da fare, deriva sia dall’indiscutibile capacità di fare coalizione dell’ex premier, in grado ora di garantirsi un governo con una buona maggioranza parlamentare, pari a 64 seggi (di cui solo 8 occupati da donne), sia dall’incapacità di ciò che resta della sinistra di aggregarsi in un’alleanza elettorale anche solo di mero scopo temporaneo. Mentre i laburisti quasi dimezzano la loro presenza (raccogliendo il 3,69% dei voti e 4 seggi), il Meretz, storico partito della sinistra sionista, non supera la soglia fatale d’accesso, attestandosi al 3,16%, rimanendo quindi escluso per la prima volta dalla sua fondazione, avvenuta nel 1992, dal Parlamento. Già questo basterebbe da sé per capire quale sia il trend prevalente in Israele, scontando a priori una debolezza strutturale della proposta politica della sinistra che, nella sua evanescenza, oramai è divenuta pressoché irrilevante.

Ma se a ciò si aggiunge poi – terza considerazione in ordine a quelle precedenti – la disillusione del voto arabo, l’elevato astensionismo e il convincimento che per via parlamentare ben poco si possa ottenere, allora il quadro della forza dei vincitori si fa ancora più chiaro. Contrariamente alle elezioni del 2015, quando, unendosi, i partiti arabi avevano ottenuto una quindicina di seggi, le liste separate (Ra’am e Hadash-Ta’al) questa volta ne hanno raccolto solo una decina. Peraltro divise al proprio interno, tra conflitti e rivalità di vario genere.

Il quarto elemento da prendere in considerazione è invece il successo della destra radicale, con la quale Netanyahu si prepara a varare un governo che raccoglierà la destra nazionalpopulista (il Likud), la destra religiosa (Shas, United Torah Judaism) e gli stessi estremisti (Sionismo religioso, con il 10,83 dei voti e ben 15 seggi). Si tratta di una maggioranza di governo che non ha precedenti in Israele, dove la destra storica, quella di Begin, Shamir e Sharon, era stata quasi sempre in coalizione non solo con una parte dei partiti religiosi ma con liste e componenti centriste; se non, in alcuni casi, in veri e propri governi di unità nazionale. Peraltro, fino ad anni recenti, la disposizione implicita un po’ in tutte le istituzioni nazionali era quella che indicava di escludere gli estremisti, le «teste calde», dai ruoli e dalle funzioni più delicate. Se la destra radicale dovesse ottenere alcuni dicasteri, com’è plausibile, allora potrebbe avere accesso ai dossier più impegnativi. Tra di essi anche quelli della sicurezza, dove alcuni suoi esponenti politici sono stati fatti oggetto di verifiche, indagini e sorveglianze da parte degli stessi apparati di protezione dello Stato. Tanto per dire.

L’exploit del Partito del sionismo religioso, che nasce dalla (precaria e contingente) convergenza di due figure fondamentali dell’attuale radicalismo etnico e ultranazionalista, Bezalel Yoel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, le cui posizioni di fondo sono in rotta di collisione con il non meno fragile equilibrio tra democrazia ed ebraicità nello Stato, rischia di creare grandi problemi alla navigazione di «Re Bibi», così come lo chiamano i suoi sostenitori. Benché sia un politico navigato, al netto dei suoi guai giudiziari, l’alleanza di potere che dovrà gestire da qui in avanti sarà caratterizzata per una marcata propensione all’instabilità. La visione del futuro d’Israele che i gruppi estremisti manifestano (in particolare Otzma Yehudit e Noam) è d’altro canto profondamente illiberale e antipluralista.

Tra gli orizzonti politici conflittuali ci sono i confini a venire del Paese, il rapporto con la componente araba, che costituisce circa il 20% della popolazione nazionale, e la concezione dell’essere ebrei come appartenenza etno-identitaria

Tra gli orizzonti politici conflittuali ci sono i confini a venire del Paese, il rapporto con la componente araba, che costituisce circa il 20% della popolazione nazionale, e la concezione dell’essere ebrei come appartenenza etno-identitaria. Nel primo caso il mandato che il Sionismo religioso (che, va ripetuto, è un blocco elettorale, non una formazione politica unitaria) si è dato è quello di far coincidere lo Stato d’Israele con Eretz Israel, la terra d’Israele per come è richiamata nei Testi sacri dell’ebraismo. Ciò comporterà un nuovo e pesante capitolo di tensioni che avrà ad oggetto gli insediamenti in Cisgiordania, costantemente in crescita nel numero di residenti. Una tale politica non solo proseguirà nei fatti, in un processo di inarrestabile espansione territoriale, ma renderà ancora più problematica la capacità delle istituzioni israeliane di evitare che ciò si trasformi da subito sia in fattore di crescente attrito con gli interlocutori internazionali sia in una potenziale fonte di attriti all’interno del sistema di pesi e contrappesi dello Stato.

Il territorialismo della destra radicale, infatti, rivendica anche una svolta (che sarebbe una vera e propria frattura) all’interno del sistema istituzionale, a detrimento degli organi di rappresentanza, di intermediazione e di garanzia, a partire dall’autonomia dei poteri giurisdizionali. Per ciò che concerne la presenza araba nella società israeliana, Smotrich e Ben-Gvir non hanno mai nascosto il loro proposito, ossia quello di arrivare al giorno in cui essa sarà neutralizzata. Plausibilmente, con l’ipotesi di una sorta di trasferimento in massa di questa in altre terre. L’inattuabilità, morale e civile, prima ancora che politica e fattuale, di una tale ipotesi nulla toglie alla capacità di coalizzare e fidelizzare consensi posizionati su versanti sempre più radicalizzati.

Ancora una volta, il sospetto, che si fa avversione, nei confronti delle minoranze interne serve a costruire un blocco di elettori il cui collante è una sorta di “timore spavaldo”, ossia la propensione a osare di pensare l’altrimenti inaccettabile. Dando mandato ad alcuni politici di farsi portavoce in tale senso. Inutile richiamare l’avversione per i diritti civili, che nel radicalismo fa da corredo a una visione agorafobica del mondo, ispirata a una sorta di riduzione della politica a mero esercizio di forza. A tale riguardo, la proposta della destra radicale odierna è infine quella di etnicizzare l’appartenenza ebraica, riformulandone i suoi significati: non più elemento di una cittadinanza giuridica e civile, ma indice di una condizione originaria, quella di “natura”, che si fa in sé dimensione politica totalizzante. L’essere ebrei, in quest’ottica, non è più il costituire parte di un tutto, dove si collocano anche i non ebrei, ma una totalità che vive di luce propria, a prescindere da qualsiasi obbligo di mediazione con il resto delle collettività. L’israelianità è ebraismo, e non altro. Ma l’ebraismo, a sua volta, è qui inteso essenzialmente come un carattere etno-nazionale e non al medesimo tempo come anche qualcosa d’altro, molto differenziato al suo interno. Anche da questa premessa si alimenta quindi la crescente spaccatura nei confronti della componente araba del Paese. Netanyahu, durante la campagna elettorale, ha parlato di volere formare un esecutivo «Yamina malè», di «destra piena», per cui chi non è con lui può diventare un traditore, una sorta di antipatriota.

La proposta della destra radicale odierna è quella di etnicizzare l’appartenenza ebraica, riformulandone i suoi significati: non più elemento di una cittadinanza giuridica e civile ma indice di una condizione di “natura”

Un’ultima considerazione va poi fatta. Lo sfarinamento del blocco anti-Netanyahu segna anche una significativa inversione di tendenza sul piano politico per gli avversari del premier entrante. Dai primi anni Duemila in poi diversi esponenti politici, in origine sia di destra sia di sinistra (ad esempio Sharon, Peres, Livni), in assenza di un negoziato con la controparte palestinese, avevano tentato di lanciare la carta centrista, ossia della formazione di un partito in grado di diventare il baricentro del sistema politico nazionale, posizionandolo su un versante moderato e secolarizzante. Una tale operazione configurava e precorreva una soluzione unilaterale del conflitto con i palestinesi, di fatto disegnando dei confini tali da favorire Israele ma anche in grado di definire, una volta per tutte, le linee di divisione tra israeliani (compresi tra di essi gli stessi arabi con cittadinanza) e la comunità nazionale palestinese. Il ritiro da Gaza, nel 2005, si inscriveva in questo orizzonte. Che si rifletteva sulla logica del sistema politico interno, senz’altro in tale modo destinato a mutare, tuttavia preservando la rappresentanza pluralista e secolarizzante delle istituzioni nazionali. Oggi, ciò che resta di quell’esperimento si è definitivamente concluso. I 24 seggi conquistati dal partito centrista Yesh Atid di Yair Lapid non sono indice di una potenziale alternativa allo smottamento a destra, ma solo il segnale che alla sinistra, cannibalizzata nel voto dagli stessi centristi, si sostituisce un partito liberale ma completamente estraneo alla progettualità che fu, in un tempo oramai da molto trascorso, della sinistra sionista. Qualcosa, in fondo, che è allineato agli standard che vanno confermandosi rispetto all’affermarsi del nazionalpopulismo e dei sovranismi identitari in molti Paesi a sviluppo avanzato.