La barriera che segrega. La Barriera di separazione, Homat HaHafrada, o Security Fence, Geder HaBitahon, dai palestinesi definita invece come Muro dell’apartheid (anche Muro di separazione razziale), Jidar al-fasl al-’unsuri, è una complessa articolazione di strutture, variamente disposte per un tracciato di circa settecento chilometri, corrispondenti e in parte sovrapposte, o comunque antistanti e limitrofe, a circa il 90% della vecchia linea di demarcazione tra lo Stato d’Israele e la Cisgiordania, quest’ultima definita dagli accordi armistiziali sottoscritti nel febbraio del 1949 (la cosiddetta «Linea verde»), dopo la fine del primo conflitto arabo-israeliano. La parte restante, ossia il 9,4% del terreno, era in origine parte del territorio della Cisgiordania, entità, dagli anni Novanta, sotto amministrazione congiunta israelo-palestinese.

Tale territorio è ora incorporato di fatto, attraverso la confisca, nello Stato d’Israele. In essa è inclusa parte della cosiddetta Zona di congiunzione, dove si trovano alcuni importanti insediamenti ebraici edificati dopo il 1967, oltre la vecchia Linea verde, tra i quali Gerusalemme Est, Gush Etzion, Ariel, Alfei Menasche, Efrat, Beit Arye, Modi’in Illit, Giv’at Ze’ev, Ma’ale Adunim, Beitar Illit. L’insieme di buona parte di queste località urbane costituisce un vero e proprio circuito di espansione e consolidamento della presenza ebraica al di là delle linee divisorie, sia pure parziali e temporanee, sancite dalla cristallizzazione dei rapporti di forza definitisi con gli avversari arabi nei primi anni di esistenza di Israele.

La Barriera, nella sua materiale costituzione, è il prodotto dell’alternarsi di muri in calcestruzzo e materiali edili di particolare resistenza (fino ad otto metri di altezza), reticolati, sistemi di sicurezza elettronici, tornelli e porte elettroniche, fossati antiveicolo, strade di perlustrazione su ambo i lati, strisce di sabbia per l’identificazione degli intrusi insieme a un sistema integrato di rilevazione della presenza ottica di esseri viventi e di “aree di esclusione”, dove ai civili non è permesso il libero transito. L’avvio della sua costruzione data al 2002, in un periodo in cui il terrorismo anti-israeliano, a seguito del fallimento, due anni prima, del tentativo di pervenire a un accordo globale in merito al conflitto con la controparte palestinese, aveva inaugurato una stagione di ripetute violenze contro i civili.

L’avvio della costruzione della barriera, data al 2002, aveva inaugurato una stagione di ripetute violenze contro i civili

Benché buona parte dell’area perimetrale interessata alla sua edificazione sia già stata ultimata, i lavori ad oggi non sono ancora del tutto finiti, essendo stati fatti oggetto di costanti cambiamenti di percorso, anche in base a rettifiche ripetutamente imposte dalle sentenze della Corte suprema di giustizia israeliana. Numerose, infatti, sono state le richieste di rivedere il tracciato della costruzione, soprattutto da parte di singoli palestinesi, lesi nei loro di diritti di proprietà, così come dall’opposizione politica organizzata, manifestatasi in più occasioni, in particolare tra alcuni partiti e i movimenti della sinistra israeliana. Di fatto, l’azione dell’alta magistratura ha espresso, attraverso il corpus delle sue sentenze, in più di una occasione, una manifesta perplessità rispetto alla completa legittimità giuridica di singoli aspetti o implicazioni della linea di separazione. Non per questo vi è stato un pronunciamento di illegittimità.

Altro discorso è, invece, il tema dell’opportunità politica. L’idea di dividere fisicamente i territori israeliani da quelli cisgiordani risale peraltro al 1992, quando l’allora Primo ministro Yitzhak Rabin si era già genericamente espresso in tale senso. Tre anni dopo, un apposito gruppo di lavoro, la commissione Shahal, si era adoperato nel definire un’ipotesi di tracciato. Nel 2000 il premier Ehud Barak aveva quindi finanziato una prima tranche, per una settantina di chilometri, nel Nord del Paese e in prossimità di Latrun, punto strategico nei collegamenti tra Tel Aviv e Gerusalemme. Alcuni movimenti di opinione israeliani si erano espressi a favore di questa soluzione.

L’idea di dividere fisicamente i territori israeliani da quelli cisgiordani risale peraltro al 1992, quando l’allora Primo ministro Yitzhak Rabin si era già genericamente espresso in tale senso

Con il trascorrere del tempo e l’ampliarsi delle aree interessate, anche l’opposizione ha tuttavia preso corpo. Per parte palestinese, nello specifico, si sono messe in evidenza una pluralità di questioni: dalla netta rottura della continuità fisica e geoambientale dei territori interessati alla prassi delle espropriazioni dei terreni, l’abbattimento di oliveti e agrumeti e l’appropriazione di risorse idriche, fino alla valorizzazione degli insediamenti colonici ebraici, di fatto, in tale modo, resi parte, ancorché unilateralmente, dello Stato d’Israele.

Più in generale, viene denunciato il fatto che il rimando alla sicurezza, alla quale le autorità di Gerusalemme si richiamano, sia poco più che un pretesto per stabilire, invece, una vera e propria linea di demarcazione che obbliga le comunità arabe cisgiordane alla segregazione, limitandone la libertà di movimento. Per parte israeliana, invece, l’obiettivo di contenere l’ondata terroristica, che dal 2000 aveva coinvolto il Paese, è stato raggiunto. Nel 2005 l’allora Primo ministro Ariel Sharon si era pronunciato affermando che il tracciato della costruzione non avrebbe costituito la futura linea confinaria, nell’ipotesi che il negoziato tra israeliani e palestinesi avesse permesso la nascita dello Stato di Palestina. Di fatto il seguente stallo negoziale sta concorrendo ad attribuire alla barriera divisoria anche una funzione di netta demarcazione amministrativa e di perdurante frammentazione spaziale, elementi enfatizzati dal vuoto politico che connota, allo stato attuale dei fatti, le relazione tra le due comunità nazionali.

 

[Questo articolo è frutto della collaborazione tra Osservatorio Balcani e Caucaso e rivistailmulino.it]