Mi rendo conto che si pone un problema di opportunità. Mentre scrivo, fatti atroci si susseguono a velocità sostenuta, a Gaza c’è una crisi umanitaria senza precedenti, il numero di morti palestinesi ha superato quello delle perdite israeliane. E allora comprendo bene che, quando mi metto a discutere di categorie analitiche e dei torti di una parte della sinistra verso gli israeliani, il rischio di sembrare fuori luogo c’è tutto. Eppure, mi dico, il bello di scrivere per una rivista che si fregia di contribuire a tenere a galla quel poco di dibattito intellettuale che resta in Italia sta anche qui, nell’avere il lusso di fermarsi a ragionare su come ragioniamo.

Mettiamo da parte, per un secondo, i fatti di queste settimane, per riprenderli più in là. Negli ultimi anni ci sono stati due sviluppi interessanti del dibattito a sinistra. Primo, la riscoperta dei valori anticoloniali, che già in passato hanno avuto un peso rilevante, ma che recentemente sono stati rispolverati e attualizzati come chiave di lettura della contemporaneità. Secondo, la diffusione del framing dell’apartheid per descrivere l’occupazione dei Territori palestinesi. È un tema delicatissimo, di cui mi ero occupata sul fascicolo n. 2/2023, ma, in estrema sintesi, può essere riassunto così: Israele controlla di fatto la Cisgiordania, seppure non l’abbia formalmente annessa; in Cisgiordania vivono palestinesi e coloni israeliani, ma ai primi si applica la legge militare, ai secondi la legge civile; i primi non possono votare il governo che di fatto decide delle loro vite, i secondi sì; dunque c’è un territorio dove convivono due popolazioni, una sola delle quali gode di pieni diritti; e l’applicazione di due leggi e due sistemi di diritto a due popolazioni che vivono nello stesso luogo è, per definizione, apartheid.

Dunque, si diceva, abbiamo avuto queste due evoluzioni nel dibattito a sinistra. E si tratta, nella mia opinione, di due sviluppi positivi.

Adesso però veniamo ai fatti di oggi. Quello che è successo è che Hamas ha massacrato centinaia di civili israeliani, uomini, donne e bambini, stanandoli nelle loro case, e una parte della sinistra – certamente minoritaria, ma non del tutto marginale – l’ha considerato un atto di resistenza anticoloniale. In alcuni casi, ha persino festeggiato. Gli episodi più estremi arrivano dagli Stati Uniti: il professore di storia a Cornell che ha definito l’attacco di Hamas “esilarante” ed “energizzante”, perché sovvertiva il monopolio della violenza; oppure la docente di American Studies all’Università della California che ha twittato “è facile avvicinare i giornalisti sionisti, hanno case con indirizzi, figli a scuola” aggiungendo hashtag con coltello insanguinato. Nella mia bolla ho pizzicato gente a sfottere sui social media conoscenti israeliani – non il popolo israeliano in astratto, eh, persone reali con cui avevano studiato e lavorato – che stavano sotto le bombe. Meno agghiacciante, ma più sintomatica, l’ormai famigerata dichiarazione di una trentina di associazioni studentesche di Harvard, secondo cui “il regime di apartheid israeliano è l’unico responsabile della violenza”, dove il problema stava nell’affermare che ci fosse una responsabilità – dunque una colpa – unica. Ergo, se ne deduce che gli assassini abbiano agito secondo diritto, o per lo meno senza passare dalla parte del torto.

Altri si sono già soffermati sulla bancarotta morale che questi ragionamenti tradiscono. Io però vorrei soffermarmi sulla bancarotta intellettuale che si nasconde dietro a certe uscite. C’è gente che, da una posizione sedicente di sinistra, si schiera a favore dell’attacco indiscriminato contro i civili israeliani, di stampo marcatamente terroristico – nel senso più letterale del termine, ovvero il cui obiettivo è terrorizzare la popolazione. E lo fa perché è convinta che terrorizzare la popolazione israeliana, all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele, sia un atto di decolonizzazione. Lo fa perché pensa che Israele – non solo i Territori occupati, ma Israele in sé – debba essere decolonizzato. Alla radice di questo modo di pensare, c’è un approccio pigro, approssimativo (e, non ultimo, frutto di un’assenza di riflessione) sulla natura coloniale di Israele. Che, per carità, esiste, ma meriterebbe di essere affrontata in modo quanto meno serio.

Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française

Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française. Per più di cento anni, tra il 1848 e il 1962, l’Algeria è stata parte integrante della Francia (non, dunque, una colonia, com’era stata in precedenza), pur mantenendo una caratteristica tipicamente coloniale: la maggioranza dei suoi abitanti, arabi musulmani, non aveva diritto di cittadinanza, ma conviveva con una grande minoranza (circa il 10%) di abitanti di origine francese, che godeva di piena cittadinanza. Quando il movimento per la liberazione algerina si energizzò, a partire dagli anni Cinquanta, lanciò una serie di azioni, anche violentissime e di natura esplicitamente terroristica, contro la popolazione civile dei pieds-noirs: l’obiettivo era rendere la loro vita impossibile, convincerli ad andarsene. La decolonizzazione passava dal cacciare i francesi, non soltanto la Francia. Molti da sinistra, con i dovuti distinguo, solidarizzavano con questa lotta, dove il fine giustificava i mezzi.

Tornando ai giorni nostri, è evidente che una fetta, piccola ma non trascurabile, della sinistra occidentale legge la realtà israeliana secondo il paradigma algerino. L’oppressione palestinese si risolve perseguitando la popolazione israeliana al punto da convincerla a fare le valige: è la decolonizzazione, bellezza. Quello che sfugge è che c’è una differenza, fondamentale, tra Israele e l’Algérie française: a differenza dei pieds-noirs, gli israeliani non hanno una “Francia” a cui tornare. Si ha un bel dire “rimandiamoli da dove vengono”, ignorando che molti israeliani discendono da luoghi – il Marocco, lo Yemen, la Polonia – dove sarebbe impensabile ritornare. Più seriamente, poi, la popolazione israeliana è radicata lì, ormai esiste una realtà normalizzata, una nazione, un’identità israeliana, che magari a qualcuno può non piacere ma è un dato di fatto.

Israele non è l’Algeria. È un caso di quello che alcuni studiosi definiscono, con efficacia, “settler-colonialism” che ricorda più Stati Uniti, Canada e, non per ultimo, il Sudafrica (anche l’Algeria era un esempio di “settler-colonialism”, ma un po’ peculiare, visto il mantenuto rapporto con la metropoli). Il termine, che spesso viene usato, non sempre con cognizione di causa, anche tra i militanti anti-israeliani più beceri, in realtà è assai utile per guardare con lucidità la realtà sul campo. Arnon Degani, un accademico israeliano che consiglio di leggere, ha scritto a proposito un interessante articolo divulgativo su “Haaretz”. “Il settler-colonialism non è semplicemente un colonialismo che ha insediamenti. È una formazione storica che spesso è un complemento dei progetti coloniali ma che, va sottolineato, è analiticamente distinto”. E ancora:

“La violenza coloniale punta a sottomettere […] ma la violenza settler-coloniale riduce la popolazione indigena al punto da arrivare a un dominio unicamente dei coloni. È così che siamo arrivati a Stati settler-coloniali come Canada, Australia e Stati Uniti, nazioni che ospitano molti studiosi che usano il termine per delegittimare Israele”.

Poi prosegue:

“Per gli Stati settler-coloniali di successo l’assimilazione e l’eliminazione hanno lavorato insieme […]. In un certo senso ciò che viene eliminato non è il corpo fisico della popolazione indigena ma la sua rivendicazione esclusiva”.

Secondo Degani la summa della mentalità legata al “settler-colonialism” la si può trovare in un verso del cantautore socialista americano Woody Guthrie: “This land is your land, this land is my land / […] This land was made for you and me”.

Chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia un po' come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive

Ora, vorrei tornare al paragone col Sudafrica. Come ho scritto sopra, trovo l’utilizzo della parola apartheid piuttosto azzeccata per descrivere l’Occupazione dei Territori palestinesi. Resta però un paradosso. I più accaniti tra i detrattori di Israele, quelli convinti che le azioni di Hamas siano giustificabili in quanto atto di decolonizzazione, si ostinano a usare questo termine, apartheid… ignorando che le loro posizioni negano di fatto le similitudini col Sudafrica. Come già detto, chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia più come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive, seminando morte e terrore. Eppure, la lezione del Sudafrica non potrebbe essere più diversa. Lì si era di fronte a una popolazione di origine straniera, ma “nativizzata”, che opprimeva una popolazione indigena stricto sensu. Lì la decolonizzazione è passata dalla richiesta di diritti e di uguaglianza, anche attraverso la lotta armata, non dalla cacciata degli “invasori”, che invasori ormai non erano più. L’apartheid in Sudafrica è stata sconfitta, guarda un po’, abbattendo l’apartheid, non cacciando l’uomo bianco.

Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che alcuni di coloro che utilizzano il termine “apartheid” in continuazione, poi si mostrino quanto meno disinteressati ad abbattere l’apartheid in sé, come si è fatto in Sudafrica, perché per loro il nemico non è mica la diseguaglianza, è la presenza di un popolo che non dovrebbe stare lì, “a casa di qualcun altro”. Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che in un’epoca in cui la sinistra parrebbe avere recepito quanto sia odiosa e nativista l’idea di rimandare qualcuno “a casa sua”, ancora perduri il convincimento che si possa rispedire “a casa”, con violenza mostruosa, un popolo intero che una casa non ce l’ha.