La Turchia che Mustafa Kemal Atatürk e i suoi successori avevano plasmato quasi cent’anni fa si basava su alcuni pilastri: il nazionalismo, l’occidentalismo e il laicismo. La politica del presidente Recep Tayyip Erdoğan e del suo Partito della giustizia e dello sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp) si discosta drasticamente dall’eredità kemalista, soprattutto sul terreno religioso e culturale: l’Islam sunnita ha ormai assunto un ruolo centrale nella definizione dell’identità politica turca. Le scelte dell’esecutivo sono ispirate a valori tradizionali e musulmani, tanto nelle questioni di politica interna quanto in quelle di politica estera. Il dominio politico dell’Akp è andato di pari passo a una progressiva islamizzazione della società turca.

A partire dal 2012, uno degli obiettivi dichiarati del governo è stato quello di favorire la crescita di una generazione devota. Sul piano dei costumi, il consumo di alcool è fortemente scoraggiato da un’aspra tassazione, nonché dalla difficoltà nel pubblicizzare questo tipo di prodotti non contemplati dall’Islam sunnita. I riferimenti alla morale pubblica, al ruolo della donna nella società e ai diritti della comunità Lgbt+ sono improntati sulla religione. Il mondo dell’istruzione scolastica è stato più volte riformato in tale direzione: gli Imam Hatip – le scuole confessionali – ricevono ormai una sproporzionata quantità di fondi pubblici se paragonati agli istituti statali e l’insegnamento della religione è ormai obbligatorio in ogni ordine e grado. Il vocabolario stesso della politica turca è oggi intriso di riferimenti all’Islam e al Corano – basti pensare al discorso di insediamento di Erdoğan in seguito all’elezione del 2014, durante il quale il presidente ha definito quel momento come un nuovo inizio con il termine Fatiha (il primo capitolo del Corano). In questo contesto non dovrebbe sorprendere la riconversione religiosa della Grande Hagia Sophia, avvenuta nel luglio del 2020; o ancora l’inaugurazione, lo scorso 28 maggio, di una grande moschea in Piazza Taksim a Istanbul, luogo simbolo dell’era kemalista, nonché storico terreno di scontro tra laici e conservatori, culminato nelle famose proteste di Gezi Park del 2013. Il vocabolario della politica turca è oggi intriso di riferimenti all’Islam e al Corano – basti pensare al discorso di insediamento di Erdoğan in seguito all’elezione del 2014, dove il presidente ha definito quel momento un nuovo inizio, con il termine Fatiha (primo capitolo del Corano)

All’origine di questo processo, che sta apparentemente cambiando il volto della Turchia, c’è una questione culturale-identitaria con radici molto profonde. Nel 1923, alla nascita dello Stato-nazione turco, un moderno sentimento d’identità nazionale doveva prendere il posto dell’Islam, elemento unificatore dell’umma ottomana. A questo scopo la società turca fu modernizzata, occidentalizzata e laicizzata dall'élite politica repubblicana. Il laicismo alla turca (Laikik) aveva lo scopo ultimo di sradicare la religione dalla sfera pubblica e addomesticarla in una sfera meramente privata. Per questo motivo, l’uso politico della religione venne vietato dalla Costituzione. In realtà, questo obiettivo non fu mai realizzato appieno e, soprattutto nelle aree rurali del Paese, la popolazione continuò a identificarsi con il tradizionale sistema di valori legato principalmente all’Islam.

Quanto l’identità islamo-conservatrice fosse il riferimento principale per una buona parte della popolazione emerge chiaramente nella seconda metà del Novecento. All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’élite politica kemalista mise fine all’era del partito unico e le elezioni premiarono formazioni partitiche di centrodestra; con esse si affacciò una classe politica conservatrice che, benché non mettesse in discussione i principi fondamentali del kemalismo – come il laicismo o l’orientamento filoccidentale della Turchia – fu protagonista di un’apertura nei confronti della religione, considerata come un importante collante sociale del popolo turco. Negli anni Ottanta questa nuova visione sarebbe stata fatta propria anche dall’esercito, con il terzo colpo di Stato attuato fino a quel momento. I militari si fecero infatti promotori di una nuova ideologia ufficiale, la cosiddetta «sintesi turco-islamica», accettando la religione come componente essenziale dell’identità turca.

Il governo di Turgut Özal, nella seconda metà degli anni Ottanta, determinò le premesse per il successo dell’Islam politico nel decennio successivo. Le politiche economiche neoliberali favorirono infatti l’affermarsi della cosiddetta borghesia islamica: una classe sociale emergente, in contrasto con l'esistente alleanza economica e culturale che legava la borghesia imprenditoriale di Istanbul e lo Stato, la cui relazione simbiotica era fondata su un accordo sulla laicità e sull'ideologia kemalista. Grazie alla precedente apertura verso la religione nel campo dell’istruzione a tutti i livelli, buona parte di questa nuova classe dirigente aveva beneficiato di un’educazione alternativa. Confraternite e organizzazioni religiose autonome, quali Nurcu e Naksibendi, e le scuole per predicatori ormai esercitavano un’influenza che superava per importanza quella degli stessi partiti. Nel giro di pochi anni questa contro-élite di matrice islamica si contrappose a quella laica di ispirazione kemalista.

È questo il vero punto di partenza dell’ascesa dell’attuale classe politica turca. L’Islam politico in Turchia esisteva sin dagli anni Sessanta, nelle vesti del Movimento di visione nazionale, Milli Görüş, guidato da Necmettin Erkaban, ma i partiti legati a questo movimento erano stati ripetutamente soggetti all’interdizione da parte della Corte costituzionale. Nella lunga e complessa scalata verso l’affermazione pubblica, il Movimento di visione nazionale si era fatto portavoce dei musulmani devoti, che si consideravano vittime del kemalismo, da loro giudicato un vero e proprio «errore storico»: al suo posto essi sognavano l’imposizione di un «giusto ordine», che ridesse dignità e rappresentanza politica all’altra Turchia – quella esclusa dall’élite occidentalizzata e laica.

Negli anni Novanta l’Islam politico, formalmente ancora vietato dalla legge, beneficiò della nuova apertura della società turca. La scalata verso il successo fu inaugurata personalmente da Erdoğan con l’elezione a sindaco di Istanbul nel 1994, anche se la fortuna del mandato di Primo ministro per Erkaban nel 1996 fu interrotta dal cosiddetto «golpe postmoderno» del 1997, con il quale l’esercito intendeva escludere il conservatorismo religioso dalla competizione politica. Il partito di Erkaban venne sciolto effettivamente l’anno successivo; dalle ceneri della sua ala moderata nacque l’Akp, guidato da Erdoğan. In un primo momento la nuova formazione scelse la via del conservatorismo moderato, abbracciò il progetto dell’integrazione europea e acquisì una retorica democratica e liberale, rifiutando l’etichetta di partito islamico-erede del Milli Görüş. A posteriori è facile osservare come l’Akp abbia agito per l’implementazione di un programma del tutto simile a quello dei suoi predecessori, al punto da spingere gli osservatori a parlare di una possibile hidden agenda del partito.

In realtà, il percorso che ha condotto alla situazione attuale è stato graduale, ma con una progressione esponenziale. Durante i primi anni di governo l’Akp si è impegnato in un complesso processo di smantellamento del vecchio establishment kemalista. L’esercito è stato il primo soggetto a entrare nel mirino del partito. Approfittando del pacchetto di riforme necessarie per l’ingresso nell’Unione europea, il governo è intervenuto in un ambito che fino a quel momento era stato pressoché intaccabile: il Consiglio di sicurezza nazionale (Csn), l’organo gestito dai militari e incaricato di dettare la linea in fatto di sicurezza nazionale e politica estera – ha cessato di dettare le linee politiche dell’esecutivo, diventando un semplice organo consultivo. Grazie anche al sostegno del popolare movimento gülenista – la confraternita islamica legata al predicatore Fetullah Gülen – nel giro di pochi anni l’apparato giudiziario, la magistratura, la polizia e l’amministrazione pubblica sono stati riformati, la burocrazia statale smantellata e sostituita da personale di orientamento conservatore e islamico. Tale fenomeno di «islamizzazione» della sfera pubblica turca è stato affiancato da un grave deterioramento del suo funzionamento democratico. La dichiarazione dello stato di emergenza, all’indomani del colpo di Stato fallito del 15 luglio del 2016, è stata seguita da numerose misure restrittive della libertà; questo clima ha permesso all’esecutivo di concentrare nelle proprie mani un potere del tutto smisurato, grazie anche al passaggio della Turchia al sistema presidenziale.

Il cambiamento sociale e identitario favorito dall’Akp, combinato alla crescente erosione dello stato di diritto e delle libertà civili, potrebbe avere conseguenze di lungo periodo. Sebbene a oggi il futuro dell’Islam politico sembri legato a doppio filo a quello dell’Akp, domani questa certezza potrebbe vacillare. L’orizzonte delle elezioni del 2023 si avvicina carico di significato: un’ennesima investitura elettorale nell’anniversario della nascita della Turchia coronerebbe definitivamente lo strapotere del partito e di colui che lo guida.È chiaro dove il presidente cercherà l’ancora di salvataggio nella parte più estrema dell’elettorato islamico-conservatore. La decisione di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul è la prova che una scelta di campo è stata fatta: sacrificare la sicurezza delle donne turche sull’altare dei "valori tradizionali"

L’esito, tuttavia, non può darsi per scontato: il partito detiene oggi la maggioranza a livello nazionale, ma le elezioni municipali del 2019 hanno visto la vittoria dell’opposizione in molte città, tra cui Ankara e Istanbul, il luogo dove la marcia del successo di Erdoğan ha avuto inizio ventisette anni fa. Non è semplice fare previsioni a lungo termine, ma guardando al presente è chiaro dove il presidente cercherà l’ancora di salvataggio, vale a dire nella parte più estrema dell’elettorato islamico-conservatore. La recente decisione di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul è la riprova che una scelta di campo sia stata fatta: sacrificare la sicurezza delle donne turche sull’altare dei «valori tradizionali» non lascia ampio margine di dubbio. Il decreto presidenziale del 21 marzo 2021 ha sollevato molte critiche all’interno dell’ambiente conservatore e dell’Akp stesso, ma ha ingraziato al governo le aree dell’estremismo religioso. Esiste una sottile possibilità che l’autoritarismo possa esaurire le sue risorse e che l’Akp possa vedere la sua ascesa interrotta.

È certo, tuttavia, che l’Islam politico sia ormai un attore dominante del sistema partitico turco e che esso abbia buone possibilità di sopravvivere alla fortuna elettorale della sua espressione attuale. Vent’anni fa l’avvento dell’Akp era stato salutato come la possibile soluzione all’insormontabile polarizzazione della società turca; questa promessa è stata disattesa e la Turchia oggi sta conoscendo una delle fasi più critiche della sua storia. È lecito domandarsi se si possa ancora sperare in un domani in cui l’Islam politico abbia un ruolo di conciliazione nel rispetto delle istituzioni democratiche. Oggi questa prospettiva non potrebbe essere più lontana.