Il 20 settembre 2016 papa Francesco, ad Assisi per la quinta giornata mondiale di preghiera per la pace, ha confermato e rinnovato una delle intuizioni teologiche e politiche più profonde di Giovanni Paolo II. Ma le tensioni intra-cattoliche che l’intuizione del 1986 provocò fanno parte del processo di ricezione del Concilio Vaticano II e non si sono ancora sopite – basti vedere il passaggio dedicato ad Assisi da Benedetto XVI nel volume di Ultime conversazioni (Garzanti 2016) appena pubblicato. Come per il messaggio del Vaticano II e il suo portato post-conciliare, Francesco è tornato ad Assisi con un’ermeneutica tesa non a una critica delle discontinuità del post-concilio (come fece papa Ratzinger ad Assisi nel 2011), ma all’attualizzazione di quella discontinuità. Il papa polacco aveva intuito nel 1986, prima della fine della guerra fredda e ben prima dell’inizio della «guerra al terrore» dopo l’11 settembre, che la pace mondiale non si ottiene per sottrazione della religione e che di converso le religioni hanno una responsabilità globale di fronte all’umanità globale. Dovevano passare vent’anni anni prima che il filosofo canadese Charles Taylor spiegasse, nel suo monumentale e fondamentale volume L’età secolare (Feltrinelli, 2009), che «l’età secolare» non è il frutto della semplice scomparsa della fede in Dio e di una matematica «sottrazione» delle religioni dallo spazio pubblico.
Tuttavia il rapporto tra religione, politica e pace sono drammaticamente cambiati in questi ultimi trent’anni. Il tentativo di Francesco si iscrive nel solco aperto, su questo punto, da Giovanni Paolo II, ma in condizioni diverse, e in particolare su due punti. La prima differenza è che Francesco domina la presenza della Chiesa nello spazio pubblico, ma non domina (anche per scelta propria) all’interno della Chiesa come i suoi due predecessori. Qualche giorno prima di Assisi, neppure gli esperti si sono accorti che si è tenuto a Genova il congresso eucaristico nazionale, organizzato da una Cei in buona parte ancora espressione della Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e come molte altre conferenze episcopali oggi divisa tra il rigetto netto e chiaro del messaggio del papa, l’attendismo e l’entusiasmo per papa Francesco. Nello stesso esatto momento in cui Francesco prendeva la parola ad Assisi per concludere la giornata con la sua riflessione, a Washington D.C. iniziava la conferenza stampa alla Catholic University of America (l’università dei vescovi degli Stati Uniti) organizzata per rispondere a una petizione di teologi cattolici per una abrogazione o revisione sostanziale dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (pubblicata il 25 luglio 1968) e specialmente della parte dell’enciclica contro la contraccezione.
Quella dei cinquecento teologi della lista raccolta dalla Catholic University of America (sostenuti dai vescovi americani) era una risposta diretta all’appello pubblicato qualche giorno prima dal Wijngaard Institute, ma indirettamente e chiaramente anche una presa di posizione contro l’esortazione post-sinodale di papa Francesco Amoris Laetitia e in particolare contro quei passaggi del capitolo VIII su divorziati e risposati. Era un’immagine di Chiesa che sembrava venire dagli anni Settanta, con teologi convinti che un appello o un contro-appello possano invertire il processo di ricezione o rigetto del magistero papale nella chiesa globale quando ha a che fare con un’area delicatissima come quella della sessualità, dell’amore e della famiglia. Il tutto si svolgeva come se papa Francesco con Amoris Laetitia (e non solo) non avesse già oltrepassato quella contrapposizione su Humanae Vitae.
La seconda indicazione che proviene da Assisi riguarda il dibattito all’interno della Chiesa cattolica sulla questione della guerra e della pace, alla luce del martirio dei cristiani e delle minoranze etniche e religiose specialmente in Medio Oriente e in Africa. Se Francesco ha risolto il nodo della laicità dello Stato (con queste esatte parole) come garanzia per la convivenza in una società che ormai è multiculturale e multireligiosa ovunque (cosa su cui deve ancora convincere parecchi cattolici oltre Atlantico), non ha risolto il nodo del rapporto tra Chiesa e guerra nell’era delle persecuzioni etniche e religiose da parte di attori statuali e non statuali, in uno scenario post-Westfalia. Il messaggio e l’evento di Assisi 2016 vanno letti non solo all’interno del contesto storico di un quinquennio di guerre civili in molti Paesi dell’area nordafricana e mediorientale, in cui il fattore religioso è evidentemente presente pur se nella sua distorsione settaria manipolata dal grande gioco di potenze regionali. Il messaggio e l’evento di Assisi 2016 si inseriscono anche all’interno di un contesto di dibattito teologico interno alla Chiesa cattolica sulla sostenibilità pratica oltre che teorica di una condanna assoluta dell’intervento armato. Il messaggio inviato da Francesco al convegno vaticano su non violenza e pace dell’aprile scorso era chiaramente più libero di ricordare il rapporto tra pace e diritto alla legittima difesa, trattandosi di un convegno tra cattolici. Ma era un convegno in cui alcune voci si erano alzate per invocare una condanna teologica di ogni intervento militare, invocando da Francesco un’enciclica sulla non violenza. Ancor più che alla conferenza in Vaticano, al meeting interreligioso di Assisi uno dei convitati di pietra era l’Isis. La questione della guerra e della pace è tornata sul tavolo del cattolicesimo. Evitare di porsela è uno dei modi di evitare di ascoltare il grido dei profughi e rifugiati.
Francesco deve gestire un intrico delicatissimo di funzioni diverse: il ruolo politico e diplomatico della Santa Sede, l’azione sociale diffusa delle Chiese per la protezione delle minoranze religiose, la resistenza alla pressione sul magistero papale per una dichiarazione di guerra vaticana contro l’Islam, il papato come portavoce globale delle religioni contro lo scontro di civiltà. Assisi è stata la rappresentazione delle funzioni esplicite e implicite del cattolicesimo e del papato nel nuovo disordine mondiale.
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