Il 1° gennaio di quest’anno è nata una nuova struttura all’interno del ministero degli Esteri: la Direzione generale per la Diplomazia pubblica e culturale. Il sito del ministero spiega che la struttura «nasce con l’obiettivo di rendere il “soft power italiano” uno strumento sempre più efficace di influenza e di costruzione di un consenso globale sui temi che il nostro Paese considera prioritari. Con i suoi pilastri – comunicazione, diplomazia culturale, programmazione strategica e presenza italiana nelle Organizzazioni internazionali – la nuova Direzione generale consoliderà un dialogo costante con i media, i centri di ricerca, le università e le organizzazioni internazionali, al fine di promuovere l’Italia e una narrazione moderna dell’Italia, coerente con il nostro ruolo nel mondo e integrato con le forze produttive e culturali del Paese».

In un’intervista con la giornalista dell’Ansa Marina Perna, il responsabile della nuova Direzione, l’ambasciatore Terracciano, suggerisce che la comunicazione culturale ufficiale sia stata la «Cenerentola» della diplomazia formale, tanto che sarebbe ora di alzare il suo profilo, in Italia e all’estero. Vanno valorizzate le tradizionali e ben note risorse culturali del Paese in modo nuovo per creare una «narrazione» aggiornata, combattere gli stereotipi, aumentare «l’influenza» non tangibile dell’Italia e, quindi, meglio promuovere gli interessi nazionali. Saranno aggiunti 6 nuovi Istituti di cultura agli 82 già esistenti nel mondo, più 13 «antenne» in luoghi ove non possa esistere un Istituto. L’interdipendenza aumenta, conclude l’ambasciatore, e con questo la consapevolezza che i problemi e le sfide culturali degli altri sono sempre più presenti nella nostra vita. Bisogna agire, dunque, affinché le istanze italiane siano sempre più presenti nel mondo in generale, e nelle grandi organizzazioni internazionali in particolare.Vanno valorizzate le tradizioni e le risorse culturali del Paese in modo nuovo per creare una "narrazione" aggiornata, combattere gli stereotipi, aumentare "l’influenza" non tangibile dell’Italia e, quindi, meglio promuovere gli interessi nazionali

Roma abbraccia quindi apertamente la formula del «soft power». In un momento in cui Google pretende di elencare circa 2,8 miliardi di riferimenti e Google.scholar circa 3,8 milioni di articoli sul soft power (dati aggiornati al 7.1.2022) e in cui tutti gli Stati più influenti hanno elaborato qualche forma di strategia per esprimere la propria concezione dell’idea, l’Italia non poteva esimersi. Del resto, il gioco del potere intangibile è diventato sempre più competitivo. In un’epoca in cui pochi possono permettersi, o sentono la necessità, di proiettare una potenza hard – militare, politica, economicatutti vogliono aumentare la propria influenza, se non altro per rinforzare le esportazioni, attirare più turisti, incrementare gli investimenti esteri, far rispettare i propri interessi.

Attualmente la concezione più ristretta e strumentale del soft power prende la forma del nation branding, appropriandosi di una delle più comuni tecniche di marketing delle aziende commerciali per applicarla all’intera nazione: lo scopo è «vendere» un’idea come fosse un marchio. Il concetto non è nuovo, ma è un’indicazione della sempre più intensa concorrenza tra le nazioni per affermare la loro identità; perciò si vedono oggi tanti segni di attività ufficiale su questo fronte – dal Marocco a Singapore, dal Senegal alla regione Wallonia del Belgio. L’Italia non poteva non essere presente nella competizione. La versione di branding prodotta dalla Farnesina è intitolata Italy is simply extraordinary: BeIt.  

Il soft power di uno Stato-nazione nella versione originale, perfezionata dal politologo di Harvard Joe Nye nel suo libro del 2004 (Soft power: un nuovo futuro per l'America, trad.it. Einaudi, 2005), dipende da tre elementi: dalla sua cultura «quando è attraente per gli altri», dalle sue idee politiche «quando le vive coerentemente», e dalla sua politica estera «quando si esprime con una incontestabile autorità morale». Criteri molto esigenti, eppure, nonostante tanti tentativi di decostruzione da parte dei critici accademici, la formula non solo sopravvive, ma prospera. Il soft power infatti è il successore del vecchio concetto diplomatico di prestigio, che nelle parole del primo esperto di politica internazionale degli anni Trenta, l’inglese E.H. Carr, permetteva agli Stati prestigiosi, appunto, di poter raggiungere i loro obiettivi in politica estera senza l’utilizzo di pressioni materiali. 

Oggigiorno, a differenza di prima, gli Stati non lasciano il loro prestigio al caso: cercano di gestirlo in modo consapevole, approfittando di tutte le risorse suggerite dalla rivoluzione digitale degli ultimi trent'anni. Il nation branding si appropria di una delle più comuni tecniche di marketing delle aziende commerciali per applicarla all’intera nazione: lo scopo è "vendere" un’idea come fosse un marchio

Soft power vuole dire oggi forza dell’esempio, oppure – per dirla con Christopher Hill, esperto di Cambridge di relazioni internazionali – forza di attrazione, dove l’attrazione deriva non dalle singole conquiste sportive (le Olimpiadi), o culturali (Eurovision Song Contest), o intellettuali (un premio Nobel), ma dalle realizzazioni e dai successi, nel tempo, di una società civile. È dalle lente conquiste nell’evoluzione della sua storia, dal confronto con la modernità in tutte le sue forme, che una società guadagna una reputazione e ispira fiducia, genera credibilità, offre un modello da emulare, dice Hill: in altre parole, esercita influenza.

Quindi è vero che l’Italia si è guadagnata il riconoscimento di «Paese dell’anno», da parte dell’«Economist», per via della sua attuale leadership politica, per la sua resilienza nella pandemia, per i recenti successi nel campo dello sport e della cultura. Ma è là dove riesce a esprimere una riuscita e durevole sintesi di tradizione e modernità, riconosciuta come una risorsa specificamente italiana, che può godere i frutti autentici del soft power. 

Mentre la nuova Direzione si impegna a valorizzare le risorse ben note della cultura italiana, è soprattutto nell’ambito gastronomico che l’Italia, supportata dalle sue strutture diplomatiche, conferma la sua potenza intangibile e creativa. La presenza nel mondo della cucina italiana ha indicato nuovi standard, che tante altre culture hanno voluto seguire. Oggi la competizione tra offerte gastronomiche richiede esperienze che offrano autenticità ed accessibilità, oppure evochino luoghi e tradizioni specifici ed esotici. In Italia, dai più grandi marchi come Barilla e Ferrero, passando per le tante sagre di paese, fino alla più nuova delle pizzerie nei centri urbani, il messaggio è sempre lo stesso: «Il nostro passato è il nostro futuro». In questo modo ognuna di queste istanze fornisce la sua concezione di soft power e «diplomazia pubblica». Tocca alla Farnesina ora  misurarsi con la sfida complessa e durevole implicita in questi concetti.