Cominciamo dalla tua formazione. Hai studiato Filosofia all’Università di Milano nei primi anni Sessanta, e ti sei laureato con Enzo Paci.

Sono stato uno studente appassionato. La Statale dei primi anni Sessanta, dal punto di  vista filosofico, aveva due poli di attrazione: uno era costituito dall’insegnamento di Enzo Paci – che in quella fase era impegnato su due fronti: da un lato nella presentazione, ricostruzione, esposizione della sua interpretazione del programma della fenomenologia husserliana, e dall’altro nel tentativo di coniugare la prospettiva fenomenologica, riferita alla crisi delle scienze europee, e l’emergente attenzione nei confronti del giovane Marx. Ricordo una conversazione che avemmo all’ingresso dell’Università, in via Festa del Perdono. Paci chiese: «Ti è piaciuto il mio libro?» – il libro era Funzione delle scienze e significato dell’uomo (Il Saggiatore, 1963). Gli risposi: «Sì professore, ma non capisco come lei ci possa metter dentro Marx così, perché non torna». Lui era gentilmente sospettoso, preoccupato di un complotto contro la salvezza fenomenologica, e quindi vide in me un possibile nemico in casa. In realtà io ero affascinato da Paci, ma da che cosa? Dal suo stile. Paci non commentava, narrava. Aveva padronanza di un’enorme quantità di ambiti, di saperi, che andavano dalla linguistica all’archeologia, dalla musica al cinema, alla letteratura alla grande poesia, ovviamente a tutto il repertorio della filosofia, quindi esercitava un fascino... si usciva dalle sue lezioni avendo voglia di leggere cento libri. L’altro polo di attrazione, che per me fu molto importante, era costituito dall’insegnamento di Filosofia della scienza, il primo in Italia, tenuto da Ludovico Geymonat. A quei tempi io propendevo per un’adesione di tipo, come dire, quasi erotico nei confronti della fenomenologia come programma di fondazione dei saperi. Un programma filosofico che poi ho rivisto e criticato, ma l’idea era questa: la fenomenologia è l’esercizio dello sguardo che ti consente, grazie alla sospensione del giudizio, di non rimanere sotto un mantello di idee, ideen kleidung, ma di arrivare alle cose stesse, e arrivando alle cose stesse di approdare al mondo della vita in cui si radicano i differenti saperi, che poi procedono accecati rispetto alla loro origine. Non so se è chiaro. Questo era il fascino di Paci. Dall’altra parte, però, quello che mi attraeva era una prospettiva epistemologica. In particolare a partire dal circolo di Berlino, dal circolo di Vienna e dalla tradizione della migliore epistemologia del secolo scorso, nei suoi sviluppi, come sappiamo, popperiani, post popperiani eccetera. Quindi io ero come Arlecchino servitore di due padroni, in un certo senso. In realtà l’origine della mia prima monografia, su Kant, è legata a questa tensione intellettuale.

Si tratta di Fondazione e modalità in Kant (Il Saggiatore, 1969). Oggi può sembrare strano, ma in quegli anni, per la vostra generazione, la logica modale era un settore che esercitava una grande attrattiva, sulla scorta dei lavori di Quine, Kripke e tanti altri, che cominciavano a essere tradotti da case editrici sensibili alle nuove tendenze filosofiche.

Allora, da un lato il mio interesse era per individuare una strategia fondazionale da parte di Kant nell’ambito delle categorie delle modalità, che avevano questa natura distinta rispetto alle altre categorie. Le categorie sono nella buona sostanza funzioni di ordinamento della molteplicità spaziotemporale dell’esperienza. Cioè com’è possibile la matematica? Com’è possibile la fisica? Questo è il problema di Kant. Le categorie modali non aggiungono nulla al contenuto degli enunciati, ma definiscono la posizione che tu attribuisci agli enunciati stessi, per questo vengono caratterizzate come tetiche, dal greco thésis, che si riferisce all’atto del porre qualcosa. Possibile, attuale, necessario. Questa faccenda mi affascinava da un lato per la prospettiva, che avrei poi rivisto, di tipo fondazionale, e dall’altro per le implicazioni sul piano dello sviluppo logico formale della modalità stessa. Così nacque quel libro. Mi viene in mente che l’aspetto più affascinante del lavoro fu lo studio del periodo del silenzio di Kant. Kant presenta nel 1770 la Dissertatio e solo nel 1781 pubblica la Critica della ragion pura. In quei dieci anni non pubblica nulla ma scrive le celebri Reflexionen, le sue riflessioni, che sono raccolte oggi in circa sette o otto volumi della Akademie Ausgabe, che io lessi in tedesco gotico, quel vecchio carattere tipografico che era ancora impiegato allora nelle ristampe. Fu un’avventura affascinante, nata dalla mia doppia ispirazione filosofica: una di tipo fenomenologico e una di tipo logico-epistemologico.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 488-500, è acquistabile qui