Il lavoro di Erik Olin Wright, già presidente dell’American Sociological Association e Vilas Distinguished Professor of Sociology presso l’Università del Wisconsin-Madison, si è concentrato principalmente sulla definizione e sulla rilevanza del concetto di classe sociale in una prospettiva neomarxista. La sua opera maggiore su questo tema, l’opera della sua maturità scientifica, è Class Counts, pubblicata da Cambridge University Press nel 1997. Qui, alla luce delle proprie teorie, esamina un’ampia quantità di dati empirici provenienti dagli Stati Uniti e da altri Paesi industrializzati.
Sin dagli anni Novanta Wright ha promosso una concezione della «utopia possibile» (si veda in particolare il suo libro uscito presso Verso nel 2010 con il titolo Envisioning Real Utopias) con la quale si propone di «realizzare una visione egualitaria di un mondo alternativo» nell’ambito di una «scienza sociale emancipata». Per Erik Olin Wright le modalità della democrazia utilizzabili nelle utopie reali sono la democrazia diretta, la rappresentativa e la associativa, con un’enfasi relativa alle strutture partecipative (come esempi egli cita la conduzione del comune di Porto Alegre, in Brasile, e Wikipedia).
Abbiamo incontrato Wright a Napoli durante un soggiorno in Italia dove ha partecipato ad alcuni seminari e al convegno «Cooperative Pathways Meeting», tenutosi all’Università di Padova nell’ambito del progetto Real Utopias.

[L’intervista si è svolta al termine del seminario su «How to be an Anticapitalist for the 21st Century», presso il Dipartimento di Scienze sociali dell’Università «Federico II» di Napoli. La ripubblichiamo all'indomani della scomparsa di Erik Olin Wright, mercoledì 23 gennaio 2018.]

Inizieremmo da un dato contingente. Tu hai studiato per molti anni le classi sociali con riferimento alla collocazione di classe dei vari segmenti della società e ai fattori che la determinano. Hai analizzato i nessi tra la collocazione di classe e gli atteggiamenti e i comportamenti dei gruppi sociali, tenendoti saldamente legato a un approccio marxiano. Partendo da queste premesse, come vedi il massiccio voto operaio in Francia per Marine Le Pen e il contributo di vasti settori della classe operaia americana alla vittoria di Trump alle ultime elezioni presidenziali?

Il primo punto è l’analisi della collocazione di un individuo all’interno di una struttura di classe e del suo comportamento in diversi ambiti. Io amo sempre cominciare con la semplice osservazione che Marx non avrebbe potuto scrivere Il Capitale senza il sostegno finanziario di Friedrich Engels, che era figlio di capitalisti. E certamente non si può predire il comportamento politico di Engels in base alla sua collocazione di classe. Egli apparteneva alla borghesia capitalista eppure finanziava Marx. Anzi, in termini generali credo che non si possa far derivare il comportamento di una persona dalla sua collocazione di classe. Ciò che questa collocazione ci dice riguarda gli interessi materiali oggettivi di una persona sia che questa li conosca, sia che invece non li conosca. Ci dice anche qualcosa riguardo al modo in cui, in virtù della sua posizione nel mondo, la sua vita migliorerebbe o peggiorerebbe per effetto di determinati cambiamenti. Questo è quanto ti dice l’analisi di classe, che ci parla delle condizioni obiettive di vita. E se si parte da un approccio marxiano essa non parla solo delle condizioni esistenti ma anche di quali alternative ci sono per migliorarle. Non ci dice come la gente comprende le proprie condizioni di vita e ciò – io penso – perché il modo in cui la gente comprende le proprie condizioni di vita e ciò che potrebbe renderle migliori dipende dall’azione collettiva, dalle organizzazioni: dipende da un mucchio di cose oltre che dalla condizione di classe… dai partiti.


Questo porta ad approfondire la domanda. Nel XX secolo abbiamo avuto un lungo periodo nel quale – in un modo o in un altro e con eccezioni – la collocazione di classe era piuttosto predittiva del comportamento politico, con i lavoratori organizzati in sindacati e anche in partiti operai, spesso di orientamento marxista. Le cose sono
cambiate negli ultimi decenni.


Certo. Ma anche nel periodo in cui la correlazione era decisamente forte si dà il caso che solo qualcosa come il 50-55% votasse esattamente sulla base dei propri interessi di classe. Perciò non c’è un passaggio dal 90 al 10% ma dal 55 al 30%. Il voto operaio in
senso progressista non fu un fenomeno universale. E d’altronde tuttora c’è un nucleo di lavoratori che votano in maniera progressista. E questo è il primo punto. Io penso che gran parte del comportamento elettorale si possa spiegare con le strategie dei partiti
piuttosto che con le connotazioni dei lavoratori.


Citavi prima i partiti.


Questo è importante. Se i partiti non riescono ad articolare un insieme di programmi in favore dei lavoratori, perché i lavoratori dovrebbero votarli? Per quel che riguarda i partiti di sinistra non [...]

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/17, pp.804-810, è acquistabile qui]