EP Christian Boltanski, la perdita e l’identità sembrano essere i due assi principali della sua ricerca artistica, e sono in fondo i due lati di una stessa medaglia: con la scomparsa di qualcuno si perde per sempre l’unicità della sua vita, della sua biografia, fatta di esperienze minute o enormi. Se la perdita è una sensazione che accomuna, ciò che viene perso è sempre unico. Pensa che questa riflessione possa essere riferita al suo lavoro?
CB La domanda che mi faccio nel mio lavoro è legata al fatto che credo all’importanza di ogni essere umano perché ogni essere è unico, ed è molto importante. Ma allo stesso tempo siamo anche fragili: veniamo dimenticati subito. Ci ricordiamo del nostro nonno ma non del nostro bisnonno. C’è quindi una specie di contraddizione: ognuno è importante e unico, ma allo stesso tempo scompare in modo velocissimo. Quel che ci costituisce è prezioso perché siamo qualcuno, ma tutto questo sarà presto dimenticato. Tutta la mia vita, tutto il mio lavoro sono un fallimento perché sono stati una lotta contro la dimenticanza; ho cercato di salvare dall’oblio, ma questo non è possibile. All’inizio della mia vita volevo provare a conservare la piccola memoria. C’è la grande memoria e la piccola memoria: la piccola memoria è la conoscenza che ognuno ha della propria vita… è una storia, un sentimento. Ho provato a conservarla per ogni persona ma non è possibile: ho conservato i battiti del mio cuore, ho raccolto i battiti del cuore di migliaia di persone e li conservo in un’isola del Giappone. Ma non serve a niente: tutto questo non basta a far sopravvivere la persona.
EP I suoi lavori hanno a volte un riferimento specifico (spesso legato a un luogo, una vicenda, un gruppo di persone) ma allo stesso tempo ambiscono a toccare corde sensibili, profonde, universali. Come si muove all’interno di questa dialettica?
CB Credo che si possa parlare solo di ciò che l’altro conosce già. Faccio sempre quest’esempio: se vi dico: «Ho mal di testa», potete capire perché avete avuto mal di testa anche voi, tutti capiscono cosa significa; ma se dico: «ho male al pancreas», la gente non capirà più perché probabilmente non ha mai avuto male al pancreas. Si può comunicare solo quello che si conosce. Parlo di cose che sono davvero universali, quindi tocco molta gente. Però ognuno le ritraduce col proprio vissuto; l’opera d’arte è una specie di stimolo che ognuno completerà. Ognuno completa l’opera d’arte con la propria vita, i propri ricordi. Riprendo l’esempio del mal di testa: il mio mal di testa è diverso dal suo, ma c’è qualche cosa in comune. Tuttavia, ognuno si ricorda solo del proprio male. Si lavora sempre su qualche cosa di comune, ma sarà sempre il visitatore della mostra o il lettore che completerà quel che vede, o legge, in rapporto al proprio vissuto.
Ognuno completa l’opera d’arte con la propria vita, i propri ricordi. Si lavora sempre su qualche cosa di comune, ma sarà sempre il visitatore della mostra che completerà quel che vede in rapporto al proprio vissuto
EP I bambini spesso hanno delle reazioni diverse rispetto agli adulti di fronte al suo lavoro: gli oggetti, gli abiti, generano una lettura differente a seconda che si abbiano gli occhi «leggeri» o carichi delle immagini della vita e della storia.
CB Anche qui ognuno vede in modo diverso. Se i bambini dicono che le mie opere sono gioiose perché ci sono dei vestiti molto colorati, sono felice. Per fortuna le opere non hanno un solo significato, ma offrono un significato diverso per ognuno. Ognuno ci vede ciò che ha voglia di vedere. Ognuno può leggerle come vuole, in modo diverso, in relazione alla propria esperienza. Un bambino troverà la mia opera gioiosa perché non sa niente della Shoah, quindi vede qualcosa di gioioso; ma un adulto non la troverà tale.
EP Lei ha fatto riferimento alla Shoah: nel suo lavoro, le storie personali, fatte di perdite e trasformazioni, si intrecciano anche con la dimensione storica, a volte in modo più dichiarato, a volte in termini più sfumati. E qualche volta si determina una doppia possibile interpretazione: ad esempio, in molti suoi lavori degli anni Ottanta e Novanta ci sono riferimenti proprio alla Shoah e al nazismo, ma anche chi non sa nulla di quei fatti ne coglie la domanda sottesa. Quale pensa possa essere il rapporto tra arte e storia?
CB Non ho mai lavorato direttamente sulla Shoah, ma sono nato nel 1944, e molto presto, da molto giovane, ho sentito i racconti dei sopravvissuti, degli amici dei miei genitori che erano sopravvissuti, che sono ritornati, che hanno raccontato davanti a me. Che avevo tre, quattro anni… Ciò che hanno raccontato mi ha segnato profondamente, e per sempre. Tuttavia, non ho mai voluto parlare direttamente della Shoah. Ho fatto molte opere a proposito degli svizzeri morti, mai a proposito degli ebrei morti: ma in francese suonano in modo simile, suisse/ juif. Dicevo che avevo scelto gli svizzeri morti perché non avevano proprio nessuna ragione storica di morire, e quindi erano universali. Mi facevo un sacco di domande: come si può uccidere il proprio vicino di casa? Si può esser buoni e cattivi allo stesso tempo? Si può abbracciare un bambino la mattina e ucciderlo il pomeriggio? Tutte queste domande mi vengono da ciò che ho sentito durante quel periodo dell’infanzia: ho sentito dire che gente molto gentile poteva denunciare i propri vicini di casa e farli così uccidere. Tutto ciò mi ha molto colpito, ma non ho mai parlato direttamente della Shoah.
EP Nel 2006-2007 lei ha lavorato su un caso eccezionale nella recente storia italiana: la strage di Ustica. Può raccontarci com’è nato quel progetto e com’è stato lavorare con i materiali recuperati dal mare (oltre al Dc 9, anche abiti, ciabatte da mare, maschere, tutto quello che portiamo in valigia in vacanza), carichi, questa volta, sia dell’esperienza minuta del quotidiano sia di quella enorme della tragedia, di cui il relitto dell’aereo è l’unico testimone?
CB All’inizio non volevo lavorare su questo argomento perché pensavo di non averne il diritto, perché era un fatto che non mi apparteneva, che non era legato a me. Poi ho incontrato Daria Bonfietti [presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, N.d.R.] e suo marito e sono entrato così in sintonia con loro che ho accettato il lavoro. Ho riflettuto molto sul come sviluppare questo progetto. Mi son detto: «Non si possono mostrare gli oggetti rinvenuti dietro delle vetrine», anche se per me sarebbe stato ben più semplice. Ma questi oggetti sono troppo sacri, non potevo mostrarli in una vetrina. Ecco perché gli oggetti sono presenti, ma nascosti come in una tomba, in un ciborio. Mi son detto anche che quando si muore all’improvviso si ha sempre in testa una cosa da fare, un pensiero che viene interrotto altrettanto all’improvviso. Chi viene investito per strada magari sta pensando alla cena, ai figli, a ciò che dovrà fare durante la giornata. Mi ricordo di un mio zio – vorrete perdonare questa storiella un po’ comica – che tirava fuori l’agenda e diceva: «Non posso morire la settimana prossima perché lunedì devo pranzare con il tale, martedì devo andare a un appuntamento importante, mercoledì ho una conferenza… non posso morire, sono troppo occupato la prossima settimana!». Ciò che è terribile della morte è che se vengo investito da una macchina stasera, la mia prossima mostra non avrà più alcuna importanza. Tutti i miei impegni, se sono o meno in ritardo con le scadenze… Tutto ciò non conta più niente… Volevo quindi esprimere un sentimento di tristezza per qualche cosa che si ferma bruscamente. Per ogni persona, che nell’installazione è richiamata da uno specchio nero [come un finestrino oscurato, N.d.R.], mi sono chiesto cosa gli stesse passando per la testa in quel momento; e, com’è naturale che sia, sono parole di vita, non parole di morte. Quando sono morti erano pieni di vita. Si chiedevano per esempio: «Mamma avrà preparato la mia cena preferita?»; oppure: «Le imposte di casa saranno già state ridipinte?». Sono domande che ci facciamo abitualmente. Domande che all’improvviso smettono di avere importanza.
Volevo esprimere tutto ciò non attraverso una lente nostalgica: pensavo piuttosto a tutto quel che doveva accadere e che non è accaduto, che è stato interrotto
Volevo esprimere tutto ciò non attraverso una lente nostalgica: pensavo piuttosto a tutto quel che doveva accadere e che non è accaduto, che è stato interrotto. Trovo molto commovente, in questa tragedia, che queste persone oggi avrebbero circa quaranta, cinquanta, sessant’anni e avrebbero avuto una vita: dei figli, dei guai… Ma tutte queste vite non sono mai esistite. Volevo parlare dell’avvenire, non del passato, ma di un avvenire che per loro non arriverà mai.
EP L’arte sembra essere, in particolare rispetto a questo caso della storia italiana, l’unica possibilità che abbiamo ora per tenere vivo il ricordo tramite l’emozione, per poi affidarlo alla ricerca storica. Non conosciamo la realtà di quell’avvenimento, ma dobbiamo tenere a mente quelle vite perdute: l’arte diventa sia la guida per avvicinarci, sia lo schermo per riuscire a sostenere la vista di quegli oggetti carichi del senso di tragedia. È un ruolo possibile per l’arte? I monumenti di oggi dovrebbero fare questo, ponendo domande invece che invitare alla celebrazione?
CB Spesso, quando si fa un monumento ai caduti, non è per ricordare, è per dimenticare: è solo un monumento ai caduti; si viene pagati per il lavoro svolto e tutto finisce lì. Ma bisogna che questo monumento sia vivo. È questo che Daria Bonfietti fa molto bene. Se si vuole che la gente abbia voglia di tornarci bisogna che il monumento sia vivo, se non succede niente la gente non verrà e questo evento sarà dimenticato; ci sono troppi monumenti ai caduti nelle piazze di cui nessuno legge i nomi. Ma gli eventi poetici, musicali, teatrali, collegati al Museo per la memoria di Ustica rendono vivo il monumento, come se ogni volta si facesse una nuova preghiera. Il lavoro di Daria e dei suoi amici con il progetto Il giardino della memoria è davvero importante, perché ridà vita a quel luogo, ogni volta. Bisogna dire una cosa un po’ terribile, ma vera. È una frase di Milan Kundera, che la fa pronunciare a un personaggio di un suo racconto, custode in un cimitero: «Bisogna che i vecchi morti cedano il posto ai giovani morti». Purtroppo ci sono sempre delle nuove vittime. Vorrei quindi che il Museo per la memoria di Ustica fosse un luogo non solo dove raccontare questa catastrofe dell’aereo, ma per tutte le catastrofi, per tutti quelli che sono morti ingiustamente. Il miglior servizio che possiamo rendere a queste vittime è che diventi luogo di vita, ma anche di riflessione sulle bugie di Stato. Bisogna allargare la questione in modo che divenga universale. Il Museo non è solo un luogo per piangere, ma per lottare, per capire altre cose, per ricordarsi, per riunirsi, per vivere insieme: davvero il gruppo del Museo ha lavorato molto bene. Per me non è stato un lavoro facile, mi ha posto molte domande, specie poiché si trattava di toccare cose così sacre per le persone, per i parenti. La vicenda è molto recente, attuale: lavorare sulle cose più antiche, o anche solo più vecchie, è ovviamente più semplice. Ma qui c’erano parenti ancora vivi: come evitare di scioccare quelle persone? È stato davvero molto difficile.
(Riproponiamo questa intervista a Christian Boltanski, scomparso ieri all'età di 76 anni, artista di fama internazionale con un legame fortissimo con la città di Bologna. L'intervista fu pubblicata sul numero 5/2013)
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