Ho l’abitudine di spiegare camminando, nello spazio che separa la cattedra dalla prima fila, stando attenta a non inciampare nei piedi degli studenti che sporgono oltre le gambe del banco. Scrivo alla lavagna, riempiendomi i vestiti di polvere di gesso. Mi piace guardare i volti dei ragazzi, per essere pronta a dare loro la parola quando vogliono intervenire, per decifrare le espressioni di perplessità, per scorgere chi è rimasto indietro o semplicemente si è perso un pezzo perché era distratto.
L’insegnamento è un lavoro che richiede l’essere presenti. Un dialogo a più voci, un confronto, una crescita corale.
Eppure, ai tempi del Coronavirus, bisogna imparare a fare i conti con la distanza. Il che vuol dire, per qualche giorno, reinventarsi il mestiere, o quantomeno ripensarlo. Niente campanelle, quaderni di appunti né sguardi. Si comunica attraverso mail, messaggistica istantanea e piattaforme a scopo didattico. Può essere l’occasione di riscoprire quella che Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, definiva «Leggerezza» e che, specificando come non si trattasse di irrazionali fughe oniriche, così delineava: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza [...] devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica». La pesantezza, in questo caso, è l’emergenza sanitaria con la conseguente sospensione delle attività didattiche, o chiusura in particolari circostanze, degli istituti di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, e delle zone considerate ad alto rischio di contagio in tutta Italia (gli ultimi aggiornamenti riguardano anche Piemonte, Liguria e Friuli Venezia Giulia). Tra i destinatari della proposta calviniana, invece, ci sono i docenti, chiamati a cimentarsi con la didattica a distanza. Una sfida che gli insegnanti vogliono dimostrare di saper cogliere.
Già dai giorni scorsi, del resto, quando ancora le notizie di un’ulteriore settimana di chiusura delle scuole erano sfumate, alcuni miei colleghi avevano iniziato a definire strategie apposite, approfittando della pausa inaspettata per prendere dimestichezza con gli strumenti informatici che non sono soliti utilizzare o informandosi sulle modalità per confezionare video-lezioni e predisporre compiti da remoto. Ed ecco che nelle chat di gruppo dei docenti dell’istituto hanno iniziato a circolare proposte, richieste di consigli e tutorial. Una risposta variegata anche ai molteplici inviti, da parte del ministro Azzolina e del Miur, a trovare modalità di e-learning per cercare di far fronte al problema dell’ingente numero di ore di lezione che andranno perse.
Sono comparsi, inoltre, numerosi webinar, dedicati alle opportunità della rete e alla formazione a distanza, attivati dalle case editrici e dagli enti accreditati col Ministero dell’Istruzione.
D’altronde, quello della didattica digitale è un tema del quale i docenti sentono ormai parlare da anni. Si caldeggiano esperimenti di flipped classroom (o classe capovolta), si incentivano gli insegnanti a utilizzare piattaforme online in cui condividere materiali con i propri studenti, si creano classi virtuali in cui è possibile, per i docenti, assegnare compiti, definendo scadenze e anche attribuendo valutazioni. Di questi software, al giorno d’oggi, ce ne sono per tutti i gusti. Così come è vastissima la letteratura a riguardo: a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, sono numerosissimi i teorici che hanno dedicato studi e saggi all’urgenza di scoprire e mettere in atto un nuovo modo di insegnare e, più in generale, di stare in classe. Certamente è indubbio che le generazioni sono cambiate (non è un caso che tra i testi di riferimento vi sia Modernità liquida di Zygmunt Bauman) e che lo sperimentare originali approcci alla didattica, digitali ma non solo, consenta ai docenti di imparare nuovi stili del mestiere di insegnante e permetta, al tempo stesso, di verificare con i ragazzi quali modalità inedite possono davvero essere funzionali all’acquisizione dei saperi. A sostenere un nuovo metodo della didattica, capace di affiancare alla lezione frontale l’apprendimento laboratoriale, era, tra gli altri, Tullio De Mauro che invocava la possibilità per una classe di divenire metafora dell’agorà, centro nevralgico di Atene, dove Socrate soleva camminare conversando e «cercando di capire se dietro le parole magari formalmente giuste d’una risposta, ci fossero la mera ripetizione o la scintilla dell’intelligenza». Certamente, un conto è sperimentare l’apprendimento cooperativo in un’aula a scuola, un conto è farlo a distanza. In quest’ultimo caso, vengono a cadere la sincronia, la vicinanza, la prospettiva – nella maggior parte dei casi – di un feedback immediato da parte degli studenti, la possibilità di verificare e valutare.
Il bilancio della mia prima giornata «ufficiale» di didattica a distanza è di una cinquantina di megabyte che, tradotto, corrisponde alla dimensione di due video. Seppure necessariamente contenuti in un quarto d’ora (questa è la durata massima consentita dalla versione gratuita di un programma per registrare video), il lavoro che ci sta dietro è, in origine, avvincente e stressante al tempo stesso. Davanti a un microfono o a una webcam (per i più audaci, pettinati e meglio vestiti), il discorso all’inizio fatica ad assumere un tono naturale. Stai parlando ad uno schermo e, mentre spieghi, hai un cronometro che segna i minuti che corrono e il poco tempo rimasto. Ti chiedi, inoltre, se sia il caso di salutare i tuoi studenti che ascolteranno la lezione o se sia meglio mantenere un tono neutro, senza riferimenti personali a esperienze e lezioni passate. Per non parlare della tentazione di correggere ogni tentennamento, errore o silenzio più lungo del dovuto. Ma alla fine ci si ritrova soddisfatti e con la consapevolezza di avere, tra le mani, la possibilità concreta di essere più vicini agli studenti, anche stando in luoghi lontani. Anche senza vedersi.
Mi piace pensare che questi giorni di emergenza possano essere un’occasione, per tanti docenti, di essere creativi dove, per creatività, intendo quel che pensava Bruno Munari quando la definiva il risultato di un connubio tra fantasia e invenzione, libera come la prima ed esatta come la seconda. E ancora, la legava alla «progettazione di un oggetto, di un simbolo, di un ambiente, di una nuova didattica, di un metodo progettuale per cercare di risolvere bisogni collettivi».
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