Il progetto recentemente presentato dal governo e dal ministro Calenda per «Industria 4.0» ha avuto, fra i molti, almeno un duplice merito. Innanzitutto, costituisce una rivisitazione delle azioni di politica industriale del nostro Paese, offrendo una prospettiva di medio periodo per lo sviluppo dell’intero sistema produttivo.

Da tempo, infatti, si invocava una riflessione organica e aggiornata su questi versanti, poiché dopo i disegni strategici avviati dall’allora ministro Bersani e dopo l’avvio della crisi globale del 2008 ben poco era stato fatto per aggiornare gli strumenti utili alla competitività dell’economia nazionale.

In secondo luogo, ha sdoganato un tema finora perlopiù noto a una parte degli imprenditori e agli studiosi del settore, alimentando la consapevolezza delle sfide e delle opportunità che si stanno paventando. E non è cosa da poco, perché così facendo dà corpo e unitarietà a un processo che in realtà è già in atto da qualche tempo, ma che nel nostro Paese – come spesso accade – rischia di avvenire in modo sparso, senza una regia complessiva.

Infatti, la sfida che da alcuni anni si è concretizzata vede nei processi di digitalizzazione della produzione e dei servizi l’affermarsi di un nuovo paradigma, dove tutte le modalità di realizzazione di un prodotto o di un servizio divengono fortemente connesse e integrate fra loro. Tutto ciò non coinvolge solo le imprese, ma gli stessi consumatori che (più o meno consapevolmente) divengono soggetti attivi, in virtù delle informazioni che lasciano e delle preferenze negli acquisti. Anche solo questi pochi riferimenti spiegano perché ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale non solo delle modalità di sviluppo dell’economia, ma anche della società e degli individui, al pari di quanto è avvenuto con l’avvento della Rivoluzione industriale.

A un giorno di distanza dalla presentazione di «Industria 4.0», l’Università di Padova è stata il teatro dove si è tenuto il primo dibattito nazionale sull’argomento, grazie al XL convegno nazionale della rivista «l’industria» edita dal Mulino (in partnership con Friuladria, le Confindustrie di Padova, Treviso e Pordenone, Community media research). Molti sono i contributi e gli stimoli emersi dai due giorni di riflessioni di esperti e imprenditori. Vale la pena, però, provare a leggere alcuni elementi lì emersi, perché dopo l’annuncio, ora viene la fase di vera e propria progettazione.

Poiché di piani industriali il nostro Paese ne ha prodotti molti ma con risultati non lusinghieri, è opportuno riflettere sulle prossime tappe e sui tasti da toccare, dal momento che il cambiamento che stiamo vivendo è rapido e incerto, perché i driver tecnologici alla base di «Industria 4.0» sono molteplici e con declinazioni che rendono implausibile riuscire a fare previsioni sul futuro anche prossimo, sulle loro ricadute effettive, su quali spazi applicativi apriranno. Soprattutto è un futuro che si presenta altamente selettivo, sia nei confronti delle imprese, sia delle persone. La capacità di sapersi muovere lungo le frontiere delle nuove tecnologie diventa già oggi un elemento discriminante di inclusione o di esclusione dai processi di sviluppo. Qui è opportuno evidenziare almeno due aspetti.

Il primo non è solo di natura terminologica («Industria 4.0»). Non deve trarre in inganno che ciò possa riguardare esclusivamente le imprese manifatturiere. La digitalizzazione dei processi produttivi riguarda tutti gli ambiti produttivi, dal commercio all’industria, dal turismo all’artigianato, fino alla pubblica amministrazione. Nessuno è (ne può essere) escluso: sarebbe più opportuno definirlo quindi come «Eco-Sistema 4.0». Di più, coinvolge gli stessi consumatori in un movimento circolare: con le loro preferenze e le scelte ridefiniscono i mercati, interagiscono con chi realizza prodotti e servizi, che a sua volta si adatta alle richieste. A ben vedere, tutto ciò va a influenzare una molteplicità di piani con conseguenze sull’economie e la società. Ciò significa che la progettazione degli interventi deve essere sempre più complessa e multidimensionale, in termini – appunto – di eco-sistema. Sarebbe esiziale ragionare ancora «a canne d’organo»: politiche industriali, del turismo, della cultura e così via, dovrebbero essere sostituite da «politiche di filiera e di processi» di natura intersettoriali. Non si tratta solo di una mutazione nominalistica, ma di una vera e propria metamorfosi nella visione dello sviluppo.

Si deve poi provare a immaginare – perché, come detto, prevedere è un esercizio quasi impossibile – quali possano essere le conseguenze che l’impatto di queste innovazioni avrà sui territori e sul sistema produttivo, tentando di prefigurarne gli impatti, uscendo dall’enfasi e assumendo uno sguardo pragmatico.

Come sempre ci si divide fra chi ne intravede solo le «magnifiche sorti e progressive» e chi, per contro, prefigura esclusivamente esiti infausti (disoccupazione, moria di imprese…). Detto che nessuno è in grado di dimostrare con certezza cosa avverrà nel medio periodo (sul lungo è meglio tacere), un punto fermo però c’è: l’educazione e la conoscenza delle persone.

Il filosofo Hans Jonas sosteneva che nella nostra epoca la formazione assume una valenza etica. Nel Novecento il paradigma dello sviluppo è stato il lavoro. Attorno a esso abbiamo costruito l’economia, la società e i sistemi di Welfare. Il Duemila e l’«Eco-Sistema 4.0», oltre al lavoro, avrà bisogno di fare dell’educazione e della formazione delle persone – anche oltre l’occupazione – il nuovo pilastro su cui edificare la coesione sociale e lo sviluppo sostenibile.