«Mi chiamo Indro. Le ragioni per cui, al fonte battesimale, mi fu impartito questo nome, sono assai complesse e hanno un contenuto politico e sociale. […] Il matrimonio tra mia madre, insuese, e mio padre, ingiuese, fu uno dei grossi affari della Fucecchio d’anteguerra». Come è noto, Indro Montanelli nacque a Fucecchio, il 22 aprile del 1909 – borgo del Valdarno Inferiore posto a metà strada tra Pisa e Firenze – dove anche fu sepolto, accanto ai genitori. Il nome Indro venne scelto volgendo al maschile quello di una divinità indiana, Indra, cui il padre classicista aggiunse anche Schizògene (generatore di conflitti) tanto per sottolineare ulteriormente il messaggio.

In realtà a Fucecchio trascorse soltanto i primi cinque anni di vita. L’infanzia e l’adolescenza lo vedranno cambiare di frequente residenza (Lucca, Nuoro e Rieti, dove frequenta quarta e quinta ginnasiale, e poi il liceo classico), per via del lavoro del padre, insegnante di storia e filosofia. Nel paesino toscano Indro ritorna però per le vacanze, a casa di uno zio che gli era molto affezionato, e a Fucecchio si riconducono – come scrivono Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, suoi biografi – diversi aspetti della sua «educazione sentimentale». L’amore per la natura incontaminata, la passione per la caccia, e una certa idea della toscanità: ruvida, individualista, insofferente alle regole imposte dall’alto, anticlericale, diffidente verso la modernità. Al soggiorno in Sardegna risale il primo insorgere della depressione che lo accompagnerà, a fasi alterne, per tutta la vita, costringendolo a volte a sospendere del tutto l’attività giornalistica per curarsi. Un tratto di fragilità, che col tempo lui non cercherà più di nascondere, che stride non poco con l’immagine che molti – sia tra i detrattori sia tra gli ammiratori – hanno di Montanelli come un uomo «tutto di un pezzo». Perché Indro «schizògene» lo è stato sul serio, e lo è ancora oggi, a più di cento anni dalla nascita e a venti dalla morte. Oggetto di ammirazione sconfinata, spesso frutto di una ricostruzione selettiva della sua vita, e anche di condanna senza appello. Per i primi un modello, il più grande giornalista italiano del Novecento, un inflessibile anticomunista e un difensore della libertà contro la minaccia dell’estremismo rivoluzionario. Per i secondi, un fascista, un razzista, un maschilista, apologeta del colonialismo e precursore di Gladio.

L'idea di Montanelli uomo "tutto di un pezzo" scricchiola assai. Oggetto di ammirazione sconfinata, spesso frutto di una ricostruzione selettiva della sua vita, e anche di condanna senza appello

In effetti, come mostrano Gerbi e Liucci nei due volumi che hanno dedicato a ricostruirne la vita (Einaudi, 2006 e 2009), per un lettore non caritatevole è facile trovare elementi di prova per sostanziare ciascuna delle accuse che vengono rivolte a Montanelli. Spesso grazie alla collaborazione entusiasta dell’imputato, che si compiace nell’infastidire i moralisti. Lui stesso ha scritto: «Sono stato fascista appena ho potuto essere qualcosa», rivendicando il rapporto con Berto Ricci e con il fascismo movimentista che si raccoglieva intorno a questa carismatica figura di intellettuale e leader politico fiorentino. Gli scavi di archivio hanno rivelato gli stereotipi antisemiti che affiorano negli articoli della metà degli anni Trenta, e tutti ricordano la vicenda della «concubina» etiope, poco più che una bambina, presa in affitto, secondo gli usi, durante la guerra coloniale in Abissinia (Montanelli parte volontario per l’Africa nel 1935. Gerbi e Liucci ci ricordano che «la sua epopea africana, da soldato in armi, è durata solo due mesi e mezzo circa, però ispirerà ben tre libri scritti o concepiti in loco e decine di articoli». Proprio al successo di uno di questi libri, XX battaglione eritreo, si deve, grazie alla recensione di Ugo Ojetti, il lancio di Indro come giornalista). Dopo la guerra ci sono gli scritti che in fondo minimizzano le responsabilità del regime (il «buon uomo Mussolini») e offrono a quella parte non trascurabile del paese che era stata fascista fino al 25 luglio del 1943, e spesso anche oltre, una buona scusa per sentirsi assolta dalle peggiori accuse cui l’antifascismo militante cercava di inchiodarla. Infine, negli anni della Guerra fredda, ci sono le polemiche, spesso ingiuste, nei confronti della sinistra e in particolare dei comunisti, e più in generale di tutti quei gruppi politici e di opinione (dalla sinistra democristiana, alla borghesia progressista, sino ai contestatori del Sessantotto) che erano animati dal desiderio di cambiare la società italiana, rendendola meno ineguale sia sul piano economico sia su quello sociale.

A ciascuna delle stagioni della lunga vita di Montanelli appartengono episodi che non gli fanno onore, che hanno contribuito ad aumentare le schiere dei detrattori. Alcuni sono stati oggetto di polemiche vivaci, che sono continuate anche dopo la sua morte

A ciascuna delle stagioni della lunga vita di Montanelli appartengono episodi che non gli fanno onore, che hanno contribuito ad aumentare le schiere dei detrattori. Alcuni sono stati oggetto di polemiche vivaci, che sono continuate anche dopo la sua morte. L’aver negato a lungo, in quanto «testimone oculare», e anche contro l’evidenza portata da Angelo Del Boca, l’uso dei gas da parte dell’esercito italiano durante le guerre coloniali. L’aver tentato di convincere l’allora ambasciatrice Usa in Italia, Clare Booth Luce, a promuovere la creazione di formazioni paramilitari in chiave anticomunista in vista di una possibile vittoria elettorale da parte del Pci negli anni Cinquanta («o aiutando un colpo di Stato, se si troverà un uomo, tra quelli attualmente al potere, disposto a tentarlo; o facendo anche per conto nostro: pronti, in quest’ultimo caso, a scatenare la guerra civile, con tutte le sue inevitabili conseguenze»). L’aver scritto un articolo contro Camilla Cederna, traditrice della sua classe sociale, perché colpevole di simpatie per la sinistra extraparlamentare, criticandola non con argomenti politici ma ricorrendo ai peggiori stereotipi del maschilismo reazionario («Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga»). L’ostilità nei confronti di Montanelli negli anni Settanta non si è limitata alle critiche. In alcune fasi, essa ha preso la forma dell’odio, e ha dato vita a diversi episodi di violenza, specie dopo la fondazione de «Il Giornale», in seguito alla rottura del giornalista con il «Corriere della Sera».

L’episodio più grave avviene nel giugno del 1977, quando un commando terrorista attende Montanelli all’uscita dell’albergo milanese presso il quale risiede, nei pressi di Piazza Cavour, e gli spara. Per fortuna i colpi non risulteranno fatali. Montanelli, a differenza di tante vittime della violenza politica in quegli anni, sopravvive, e riprende la sua attività ancora più battagliero di prima. L’attentato viene rivendicato dalla colonna milanese delle Br. Lo stesso Montanelli difenderà le ragioni della clemenza nei confronti degli ex terroristi, inclusi quelli che gli avevano sparato, quando la stagione degli anni di piombo si chiuderà.

Sarebbe sbagliato, tuttavia, inchiodare Montanelli a un profilo ideologico definito. Certo, i suoi istinti sono quelli di un conservatore. Dai suoi maestri della maturità, Longanesi e Prezzolini, prende una visione scettica, quasi al limite del nichilismo, del carattere nazionale. Gli italiani sono venuti su male, e cercare di cambiarli non solo è inutile, ma spesso persino controproducente. Di qui l’ostilità nei confronti di rivoluzionari e utopisti. Ma a questo destrismo «umorale» (l’espressione è di Gerbi e Liucci) fa da contraltare una personalità che poco si adatta agli schemi della destra clericale e reazionaria del secondo dopoguerra, oppure a quella populista che emerge a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Un lettore caritatevole non fatica a trovare tracce di un Montanelli diverso dallo stereotipo dei critici di sinistra, e poco congeniale a quello dei suoi ammiratori di destra. Favorevole al divorzio, contrario alla pena di morte e alle ingerenze ecclesiastiche nella politica italiana, privo di pregiudizi nei confronti degli omosessuali, e in alcune fasi disposto persino ad ammettere che dalla sinistra non viene solo male. La ricostruzione storica di Gerbi e Liucci ci rivela insomma un uomo che vagheggia una destra anacronistica, ma con radici solide nella cultura risorgimentale, non un fascista. Un intellettuale che condivide molti pregiudizi della sua generazione, ma che è anche capace di rivedere le proprie opinioni, e di cambiarle, quando si rende conto di essersi sbagliato. Sarà così proprio nella polemica con Del Boca, quando Montanelli riconosce di essere nel torto. Oppure nel rapporto con gli ex comunisti, cui riconosce l’onore delle armi, e anche qualche cosa in più, dopo la sconfitta del comunismo.

Proprio a uno storico comunista, Paolo Spriano, lascio la parola nel concludere questo abbozzo di profilo (una vita come quella di Montanelli non sta nello spazio di un articolo). Rievocando la stampa italiana degli anni Cinquanta, Spriano scrive: «(…) Montanelli è da solo la metà del “Corriere” del tempo. Un articolo un giorno sì e un giorno no, su tutto. Mai una sciatteria, mai un pezzo tirato via. Il gusto dell’episodio da raccontare bello e disteso, la civetteria di sfottere i milanesi, troppo occupati a lavorare e a fare soldi per imparare a gustare e a saper cucinare un cibo genuino. […] Sfornando a ripetizione i suoi incontri Montanelli rischia più di una volta la maniera, ma il modello di giornalismo che privilegia la psicologia, la trovata-chiave su un personaggio, ha in lui un nuovo fulgore. […] come ispirazione c’è la scuola longanesiana, di uno scetticismo più fondo». Un giudizio equanime, da parte di un avversario politico, che contiene a mio avviso anche uno spunto di riflessione su cui sarebbe interessante tornare. Nella misura in cui Montanelli è stato un modello per il giornalismo italiano, vale la pena di chiedersi se il suo esempio sia stato positivo. Se la sua ammirazione per Longanesi non lo abbia portato a essere schiavo della brillantezza dello stile a discapito dell’equilibrio nel raccontare la realtà in tutte le sue sfaccettature. A vent’anni dalla morte riflettere su questo aspetto della eredità di Montanelli sarebbe un bel modo per rendergli omaggio.