L’imperativo della sicurezza post-11 settembre ha appiattito la politica occidentale verso i Paesi musulmani sulla lotta al terrorismo. Questa distorsione ottica, oltre ad avere impoverito la nostra conoscenza dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ha reso i governi occidentali corresponsabili della sopravvivenza di regimi autoritari, sostenuti senza troppi patemi per contenere il fondamentalismo islamico.
E' stato commesso, sostanzialmente, lo stesso errore di Realpolitik di bassa lega degli anni Sessanta-Settanta, quando gli Stati Uniti e, con minore o maggiore riluttanza, i suoi alleati appoggiavano feroci dittature militari al solo scopo di arginare il comunismo. Quella scelta è costata moltissimo in termini di credibilità: i valori sbandierati dai Paesi occidentali non venivano presi sul serio e prevaleva l’immagine “reazionaria” e amica dei dittatori. Solo con la presidenza di Jimmy Carter, alla fine degli anni Settanta, e l’affermarsi di governi socialisti in molti Paesi europei – in particolare in Germania con Willy Brandt e Helmut Schmidt e in Francia con François Mitterrand – si sono in qualche modo riequilibrate le dichiarazioni di principio con le scelte di politica internazionale.
Anche oggi prevale l’imbarazzo delle cancellerie occidentali per essersi piegate a una visione miope della sicurezza. La rivolta tunisina e la cacciata di Ben Alì non sono state salutate con entusiasmo dai governi europei, a cominciare da quello italiano. Ancora più cauti sono i commenti nei confronti dell’espansione del nuovo “movimento di liberazione” che sta ora intaccando il bastione più solido dell’Occidente nella regione, l’Egitto. Mentre il segretario di Stato americano Hillary Clinton e lo stesso presidente Barack Obama si stanno sbilanciando per favorire una transizione, il ministro degli Esteri italiano si limita ad auspicare il cessare delle violenze “da ogni parte” e a invocare la stabilità. Troppo poco per essere protagonisti della nuova fase che si sta aprendo. Evidentemente, nonostante il contesto geopolitico di prossimità dei Paesi del Mediterraneo, non si è ancora capito che sbagliare ora significa perdere ogni leva di influenza nel futuro.
La rivolta egiziana ha infatti una valenza politica che i “tumulti del pane” degli anni scorsi non avevano. La domanda che sale dai manifestanti è di un cambio di regime, alimentata dalla crisi economica da un lato e dall’insofferenza per le angherie subite dall’altro. E “indietro non si torna”, in questi Paesi. Non siamo di fronte a una manifestazione di élite studentesche, come in Iran l’anno scorso, generose ma isolate. Qui è sceso in piazza un popolo intero, reclamando la cacciata del dittatore sulla base di quei principi occidentali che noi stessi abbiamo lasciato cadere in quei Paesi. La scoperta della libertà ha effetti deflagranti.
In un mondo dove tutti hanno accesso a una televisione grazie soprattutto ad Al Jazeera, non a caso oscurata per qualche giorno dal regime, le immagini delle migliaia di persone che sfidano il coprifuoco per ascoltare un signore distinto come il premio Nobel per la Pace Mohamed ElBaradei avranno un impatto duraturo. Il futuro dell’Egitto passa da quel piccolo signore. Sostenerlo è un interesse vitale per l’Occidente, oltre che un dovere morale. Speriamo che lo capisca anche il nostro governo.
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