Quando lo scenario politico cambia con tale velocità e imprevedibilità, l’errore fatale dell’analisi politica è quello di affidarsi per inerzia e conformismo a parole e categorie fossilizzate, cercando di adattarle a tutti i costi a una cronaca quotidiana le cui logiche, tuttavia, sfuggono continuamente alla comprensione.
La realtà è testarda e, per quanto ci si ostini a nominarla secondo le proprie abitudini, continuerà a reagire in base alle sue necessità intrinseche. Secondo un adagio del filosofo inglese settecentesco Joseph Butler, particolarmente caro a Isaiah Berlin, “cose e azioni sono quelle che sono e le loro conseguenze saranno quelle che saranno: perché dunque volersi ingannare?”.
Serve dunque uno sforzo di immaginazione per elaborare nuove definizioni, e per riempire di significato categorie fruste come “populismo” e “sovranismo”, così abusate nel linguaggio comune da aver perso molto del loro valore esplicativo. Le parole della politica – vale la pena ricordarlo – non hanno soltanto fini polemici, ma sono essenziali per inseguire la complessità del reale nelle sue articolazioni, per comprenderne le sfumature, per suggerire associazioni mentali e metafore concettuali utili a dare un senso complessivo a vicende altrimenti indecifrabili.
Questo genere di chiarificazione concettuale è – dovrebbe essere – il presupposto per qualunque sensata presa di posizione. Quando viene a mancare, il prezzo da pagare è altissimo: è il motivo per cui così tanti osservatori internazionali faticano a comprendere il senso comune dei propri concittadini, disprezzando i sostenitori di Trump o i Brexiters come se fossero animali esotici “populisti”, e non la maggioranza relativa dell’elettorato attivo dei propri Paesi.
Il panorama politico italiano, per la sua inveterata creatività anche retorica e linguistica, è un eccezionale serbatoio a cui attingere, con un po’ di fantasia, per scardinare definizioni assodate. In particolare, il tripolarismo surrealista di nuova generazione sembra creare aggregazione intorno a tre atteggiamenti pre-politici apparentemente dominanti in tutte le società occidentali, che si possono definire via negationis tramite le critiche più ricorrenti che, volta per volta, vengono loro rivolte: incompetenti, incontinenti e inappetenti. Non è indispensabile identificare ciascun atteggiamento con una precisa forza politica, dato che i confini tra queste ultime non sono mai stati così labili, e la loro stessa durata non è mai stata così aleatoria.
La definizione più chiara e immediata è quella degli incompetenti: disgustati da ogni educazione politica, inseguono esclusivamente il mito della purezza morale. Sono l’espressione peculiare dell’analfabetismo sociale tipico dell’età digitale, per cui ogni libera impresa economica è l’espressione di una pulsione criminale, e dietro ad ogni compromesso politico si nasconde un complotto di ignoti.
Non venendo da nessuna tradizione, e non avendo nessun orizzonte ideale verso cui dirigersi, la risposta è infatti un secco “No” a qualsiasi domanda o esigenza del mondo reale. Sono tipicamente rappresentati da personaggi caricaturali abituati a straparlare in assenza di contraddittorio, e a lasciarsi piegare da qualsiasi argomentazione appena cogente ogni qualvolta siano effettivamente responsabili di una decisione con conseguenze reali. Pieni di buone intenzioni quando pontificano dall’opposizione, cadono fatalmente vittima delle più stupefacenti manipolazioni quando sono al governo, giustificandole a se stessi come scaltro pragmatismo necessario per mantenere le leve del potere.
Il loro successo segna la progressiva transizione dal cittadino-spettatore televisivo, che osserva e fa il tifo nei talk-show, al cittadino-giudice dell’età digitale, implacabile nel condannare sui social network potenzialmente qualsiasi azione umana, rintracciandovi i germi di un’insanabile corruzione.
Gli incontinenti, dal canto loro, intuiscono - molto prima di comprenderne i confini - le praterie che si schiudono per qualsiasi presa di posizione radicale. Implacabili segugi delle innumerevoli angosce del mondo globalizzato, si richiamano costantemente al comune buon senso, il che giustifica l’apparente incoerenza e illogicità delle loro argomentazioni. In base alla necessità, oscillano senza remore tra l’appello a sacri principi religiosi e il richiamo alle lacrime e al sangue della dura realtà.
Il loro vitalismo fa appello ai principi basilari della convivenza tribale, cioè l’appartenenza, la volontà di potenza, la paura e il nemico, che nella loro universalità raccolgono suffragi trasversali. Nella declinazione italiana, coltivano in particolare il tipico compiacimento davanti all’esercizio abusivo della forza contro chi non è stato abbastanza scaltro da procurarsi i mezzi per difendersene.
Con i giusti argini, i loro impulsi primordiali possono essere incanalati in qualsiasi direzione, purché si dia l’impressione di un’affermazione – o di una difesa - di sé a scapito dell’altro, variamente inteso a seconda dell’occasione. A differenza degli incompetenti e degli inappetenti, che si sfibrano in continue mediazioni e votazioni, si mostrano disinvolti, e anzi entusiasti, nell’esercizio del principio di autorità. Nonostante l’esibizione di completa autonomia e il fascino per l’autarchia, la loro incontinenza li rende oggetto ideale di ogni manipolazione, rendendoli idealtipi quasi da manuale di accomodanti viceré degli imperi stranieri.
Il vitalismo e la tracotanza sono i tratti che, nonostante le esili basi effettive del loro consenso, ne rendono l’avanzata apparentemente inesorabile, rafforzando l’impressione che, comunque vada, per loro sarà un successo e che, comunque vada, sarà un disastro per la categoria successiva.
Gli inappetenti si autorappresentano tipicamente come orfani di venerande tradizioni o di vecchie glorie politiche. Come sempre avviene nelle forme di decadenza senile, il loro argomento politico principale consiste nel confronto con un passato idealizzato in cui i leader politici, eretti a giganteschi totem, non si sarebbero mai azzardati a compiere le malefatte dei loro leader odierni. Questi ultimi, dal canto loro, sono paranoicamente ossessionati dalla determinazione delle influenze interne alla propria forza politica, all’interno della quale inizia e termina il loro orizzonte degli eventi. Ogni tentativo di aggancio alla realtà esterna è filtrato da fantocci scientisti (deficit, PIL, spread) che ne rende le argomentazioni particolarmente inefficaci.
Mentre l’elettore inappetente tende a innamorarsi di grandi cause ideali come i Diritti civili e la Giustizia sociale, il suo rappresentante è stregato dalle dinamiche più astruse ed esoteriche dell’azione politica, il che giustifica la perenne insoddisfazione reciproca: elettori indignati dai propri dirigenti, dirigenti che vorrebbero cambiare popolo. Rispecchiano con evidenza la fase putrescente della democrazia rappresentativa: ogni sforzo è teso a consultarsi ossessivamente per scegliere un capo – espiatorio - da sacrificare nel più breve tempo possibile, e ad evitare nella misura del possibile le consultazioni elettorali aperte, in cui l’ostinata coerenza dei propri bias di conferma rischia di essere scardinata dal duro confronto con il gran mondo lì fuori.
Incompetenti e incontinenti, essendo pieni di volontarismo, hanno il buon senso di intestarsi le cause del “popolo”, lasciando ai pigri inappetenti le questioni residue di pertinenza delle “élite”: motivo per cui i rapporti di forza appaiono così soverchianti a svantaggio di questi ultimi.
Ciascuno dei tre atteggiamenti si caratterizza, in modo caricaturale e spesso spiritosamente grottesco, per la negazione di una delle tre caratteristiche che dovrebbe esibire qualunque classe dirigente: la competenza tecnica e politica, la continenza nell’utilizzo delle parole e nella gestione del potere, e l’appetito di futuro, di progettualità, di visione, di prosperità, di fiducia.
Esistono antidoti a queste degenerazioni? Certamente: come in ogni epoca storica, gli esempi virtuosi abbondano, e non è questa la sede per enumerarli. Ma nessun determinismo li conduce a emergere e a trionfare spontaneamente: quindi è il caso, innanzi tutto, di prendere coscienza delle proprie distorsioni di prospettiva, e di approntare le opportune precauzioni, ciascuno per quanto può, per non divenirne vittime inconsapevoli.
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