In più parti del nostro Paese negli ultimi anni si sono verificati casi di commistione tra rituali pubblici cattolici e criminalità organizzata. Spesso simili forme di devozione vengono considerate residui di paganesimo rimasti impigliati tra le maglie della religiosità popolare; oppure se ne sottolinea l’utilizzo strumentale fatto da gruppi criminali per rappresentare il proprio controllo su determinati territori. Presa tra una disemia tattica, che consente posizionamenti mutevoli nello spazio pubblico, e un brescianesimo di lunga durata, che attraverso l’ironia immobilizza gerarchie di valori, sancendo modernità e arcaicità di pratiche rituali, la riflessione intorno ai cosiddetti inchini fa fatica a uscir fuori dai luoghi comuni. A me pare invece che simili vicende meritino una diversa attenzione.
Per cominciare, cosa intendiamo per “religione”? Pratiche devozionali come l’auto flagellazione, la spogliata di neonati sotto le statue di santi patroni o l’annacata sono atti religiosi – come rivendicano coloro che li compiono – o semplici manifestazioni esteriori di una distorta concezione della fede – come una parte sempre più significativa della Chiesa e dei commentatori sembra supporre? Simili pratiche e le passioni incorporate che le rendono possibili sono indici di una società e di soggettività non pienamente moderne? Cosa succede, però, se un capovara o la persona addetta a spogliare i bambini e sollevarli verso il Santo è un personaggio legato alla criminalità organizzata, cioè un soggetto transnazionale violento che mobilita strumenti economici spesso raffinati? Difficile non vedere in lui una delle figure emblematiche del nostro contemporaneo tardo capitalismo. La risposta più comune è: quel “mafioso” mente, facendo un uso strumentale di simboli, pratiche e credenze a lui estranee; o comunque quei simboli e quelle pratiche sono indici di una religiosità arcaica e formalistica. Trovo questa risposta viziata da quel formalismo normativo che è tratto di lunga durata di molte letture colte delle vicende del nostro Paese.
Come leggere allora la religiosità degli inchini? Per fornire risposte a questa domanda occorre rendere problematiche ulteriori nozioni assunte dai dibattiti attuali in maniera acritica: quella di spazio pubblico, per esempio, ma anche quella di politica, di modernità e di soggetto. In effetti, quando gli osservatori criticano quelle pratiche devozionali lo fanno presupponendo che esista una religiosità “vera” fondata su profonde convinzioni morali. Rispetto a una tale religiosità, quella devozionale sarebbe una fede meramente “esteriore”. La prospettiva a partire dalla quale il senso comune giudica simili pratiche presuppone, dunque, un soggetto “universale”, connotato da uno spazio interiore sul quale fondare modi etici di agire nella scena pubblica. Dopo Foucault sappiamo che una simile forma di soggettività è una complessa costruzione storica, esito tanto dell’esercizio da parte delle istituzioni ecclesiastiche di una governamentalità confessionale, quanto dell’applicazione di forme biopolitiche di disciplinamento dei corpi. Un tale soggetto è quindi una declinazione specifica del progetto, ideologico e politico, di costruzione della modernità. Progetto lontano da ogni presunta linearità, non cumulativo, stratificato e ciò nonostante strettamente connesso con presupposti fondamentali del “nostro” attuale modo di immaginare la realtà sociale e gli attori che le danno corpo.
Quando definiamo “esteriori”, strumentali o residuali le pratiche devozionali di persone che vivono oggi nei nostri stessi spazi sociali, se da un lato posizioniamo utilmente noi stessi all’interno di un simile progetto, dall’altro escludiamo quelle persone da una modernità ideologicamente pensata come monolitica. Soprattutto, facciamo nostra l’assunzione che il processo di costruzione delle “modernità” sia monodimensionale, omogeneo, privo di frizioni e che dunque esista solo una maniera di essere moderni. Nella “nostra” modernità, l’esistenza di uno spazio dell’interiorità, che operi da nucleo fondante di un soggetto padrone almeno di se stesso e titolare di diritti universali, si rispecchia nella presenza di uno spazio pubblico immaginato come un “luogo” nel quale possano esprimersi le diverse istanze della cosiddetta società civile. In linea di principio, la sfera pubblica presuppone ed è garantita dall’esistenza di uno Stato che fissa i limiti normativi ed etici entro i quali i diversi soggetti che vi partecipano possono muoversi.
Nel corso del processo di costruzione della modernità borghese, Illuminismo e Romanticismo, almeno sul piano colto e ideale, avevano relegato la “religione” nella sfera della soggettività, separandola dalla sfera politica e dallo spazio pubblico. Non che, anche in Europa e soprattutto in Paesi come l’Italia, la dimensione religiosa non abbia giocato ancora nel corso degli ultimi due secoli un importante ruolo politico. Tuttavia le istituzioni religiose hanno dovuto adeguare in maniera sempre più evidente valori, credenze e pratiche pubbliche ai canoni di uno spazio sociale sottoposto a un rapido processo di secolarizzazione. Il progetto di costruzione della modernità si è dunque giocato anche sul piano della rimodulazione dello spazio pubblico e della ridefinizione dei rapporti tra l’ambito “politico” e quello “religioso”. Anche in questo caso il processo ha seguito ritmi, cronologie, modalità differenti da situazione a situazione.
Da oltre quattro secoli, negli scenari dell’Italia meridionale, la lotta per il controllo delle forme rituali consente di manipolare e rappresentare pubblicamente lo status sociale e i rapporti di forza tra uomini, famiglie e gruppi. Si compone, cioè, di modalità rituali di costruzione della località che adoperano un linguaggio giurisdizionale ancora oggi, in ultima istanza, controllato dalla Chiesa cattolica. Un linguaggio, questo, che gli attori sociali adoperano con incorporata maestria tattica. In tal senso, all’interno di un simile frame giurisdizionale inscritto nella lunga durata, le pratiche devozionali sono azioni dotate di valore “politico”. Quelli sotto le statue sono spazi rituali di contrattazione politica tra i diversi strati sociali, da un lato, e le molteplici agenzie istituzionali nelle quali si articola una realtà locale, dall’altro.
In questa prospettiva, chi mette in campo pratiche come gli inchini, dando corpo a politiche della costruzione rituale di una comunità, partecipa a pieno alla modernità, anche se lo fa attraverso accomodamenti e resilienze specifiche. È un esperto manipolatore (o comunque un attento lettore) di uno spazio pubblico che, conservando un intimo carattere rituale e giurisdizionale, appare molto lontano dall’anomico e amorale familismo supposto da osservatori poco attenti alla densità storico-culturale dei “nostri” contesti. Se qualcosa connota lo specifico posizionamento di questi soggetti nella contemporaneità, è la consapevolezza della compresenza nei loro contesti d’azione di regimi discorsivi, di economie morali e di costruzioni della soggettività molteplici. E dunque la capacità, spesso ironica, di operare posizionamenti tattici di volta in volta differenti a seconda dei contesti politici implicati, degli interlocutori coinvolti e degli stereotipi chiamati in causa.
Gli attori sociali che mettono in scena inchini rituali non sono rappresentanti di una stereotipica “società tradizionale” e, soprattutto, non sono necessariamente dei “mafiosi”. I “mafiosi” come gli altri attori, ecclesiastici e laici, però, conoscono bene le logiche giurisdizionali che organizzano dimensioni importanti della sfera pubblica dei contesti in cui vivono. Possono quindi agire da protagonisti della scena rituale e influenzarla, dotati come sono di forza. Senza lo spazio performativo condiviso del rituale pubblico cattolico, tuttavia, le loro intenzioni politiche e le comuni inquietudini devozionali sarebbero inefficaci.
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