La varietà di definizioni e di proposte relative al sostegno monetario ai poveri è notevole, e sembra appropriato usare il termine «somiglianze di famiglia» elaborato nel quadro delle ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Si può individuare infatti un concetto madre – il reddito di base – cioè un trasferimento monetario pubblico a) regolare (non una tantum) e illimitato (non soggetto a vincoli di bilancio); b) che non prevede prova dei mezzi (universalistico); c) incondizionato (non obbligo di inserimento sociale o partecipazione al mercato del lavoro); d) individuale (indipendente dalla composizione familiare). Ci sono poi fratelli e sorelle (la proposta di dividendo sociale avanzata da George Cole già negli anni Trenta, il dividendo universale, l’allocazione universale), con diversi cugini (reddito minimo di inserimento, reddito di partecipazione di Tony Atkinson), nonché qualche parente povero (minimo vitale, reddito di esistenza).
In questo quadretto famigliare ha una posizione singolare il Reddito di cittadinanza, introdotto in Italia con il decreto legge del 28 gennaio 2019, che non è un reddito di base in quanto non presenta molte delle caratteristiche considerate essenziali in questo prototipo sociale di sostegno ai poveri. Ancora di meno lo è il Reddito di cittadinanza introdotto dalla Legge regionale Regione Campania n. 27 del 31 maggio 2004: un provvedimento severamente means-tested che oltre tutto era subordinato alla disponibilità di bilancio escludendo chi, pur avendone avuto diritto, non si collocava nelle posizioni apicali della graduatoria.
Il Reddito di cittadinanza, introdotto in Italia con il decreto legge del 28 gennaio 2019, non è un reddito di base in quanto non presenta molte delle caratteristiche considerate essenziali in questo prototipo sociale di sostegno ai poveri
Piuttosto che inoltrami in questo vero e proprio ginepraio di definizioni, tuttavia, vorrei affrontare alcune questioni a mio avviso utili a disincagliare il Reddito di cittadinanza dalle secche di un dibattito che in Italia ha raggiunto livelli quasi grotteschi. In particolare vorrei portare elementi in difesa della «curvatura lavoristica» del Reddito di cittadinanza, aspetto oggetto di molte critiche, riconsiderando il tema alla luce del dibattito sulle classi sociali e il mercato del lavoro.
Naturalmente i poveri non sono una classe sociale e, difatti, li ritroviamo in diverse categorie socio-professionali e diversamente collocati nel mercato del lavoro. Come scriveva Simmel nel suo famoso saggio Der Arme, del 1908 (trad. it. Il povero, in Sociologia, ed. it. a cura di A. Cavalli, Comunità, 1989), il povero «è appunto un commerciante, un artista, un impiegato ecc. povero, e rimane in questa serie determinata dalla qualità della sua attività o posizione. All’interno di questa egli potrà assumere, a causa della sua povertà, una posizione modificata per grado, ma gli individui che si trovano a questo livello nei diversi ceti e nelle diverse professioni non sono affatto raggruppati […] in una particolare unità sociologica». È interessante notare che il sociologo berlinese, pur riconoscendo l’esistenza di forme embrionali di organizzazione dei poveri, come quelle dei Penner, i senzatetto della sua città natale, teorizzava che l’appartenenza a un tale gruppo si realizza come categorizzazione, nel momento in cui essi diventano oggetto di assistenza (anche in via potenziale), e non come associazione. Quindi non classe in sé e neppure classe per sé, volendo utilizzare una terminologia marxiana.
Questa impostazione simmeliana ha fatto perdere di vista il fatto che sin dalle origini delle leggi elisabettiane, a cavallo tra Cinquecento e Seicento, l’intervento diretto ai poveri è stato parte integrante del sistema di regolamentazione del mercato del lavoro. Karl Polanyi si spinge fino a considerare un «nome improprio» (misnomer) il termine «leggi sui poveri» poiché di esse facevano parte sia lo Statute of artificers del 1563, che riguardava i lavoratori agricoli e gli artigiani, sia l’Act of settlement (1662) che regolava i flussi di manodopera in uscita. Del resto Oliver Twist, che Dickens nel suo noto romanzo qualifica come parish boy, ossia un povero accolto in uno ospizio, non a caso viene mandato a lavorare presso un fabbricatore di bare, a dimostrazione dell’intreccio strettissimo tra l’essere povero assistito ed essere un apprendista.
Dunque, sin dalle origini della società industriale, lo Stato si presenta nella veste di un soggetto attivo nella costruzione e regolazione del mercato del lavoro. Tale ruolo non assunse soltanto la forma che Barrington Moore jr non esita a definire «violenza di Stato» (trad. it. Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi, 1969): esso si manifestò anche attraverso lo sviluppo della legislazione del lavoro e sociale. Ne deriva che la posta in gioco nelle politiche di contrasto alla povertà non riguarda solo l'equità nella distribuzione e redistribuzione del reddito, ma di particolare importanza sono anche le condizioni di partecipazione al mercato del lavoro. Offrirsi o meno sul mercato del lavoro è una decisione che non può essere lasciata ai bisogni individuali e famigliari, ma deve essere regolata per legge onde evitare che i lavoratori «liberi», ovvero non più schiavi o servi, si sottraggano alla condizione di salariati come condizione «normale» della loro esistenza, decidendo come procurarsi da vivere in modo alternativo.
La posta in gioco nelle politiche di contrasto alla povertà non riguarda solo l'equità nella distribuzione e redistribuzione del reddito: di particolare importanza sono anche le condizioni di partecipazione al mercato del lavoro
Sempre rimanendo al caso piuttosto esemplare dell’Inghilterra, una forma importante di regolamentazione fu, come è noto, quella del sistema Speenhamland introdotto nel 1794, poi abolito nel 1834, il quale offriva una integrazione al salario calcolata sulla base del prezzo del pane. Si trattava, anche secondo criteri moderni, di un complesso di diritti sociali che andavano ben al di là dei confini ristretti del pauperismo. E i promotori del sistema si rendevano perfettamente conto che esso poteva essere utilizzato per conseguire ciò che non si poteva ottenere con la contrattazione salariale. Questo tentativo di iniettare un elemento di sicurezza sociale nella struttura stessa del sistema salariale attraverso il meccanismo della legge sui poveri fu abbandonato a seguito della riforma del 1834, il Poor Law Reform Act, con il quale la legislazione sui poveri rinunciò a ogni pretesa di violare il territorio del sistema salariale e abolì il «diritto di vivere», come dirà Polanyi, offrendo assistenza incondizionata solo ai poveri meritevoli (persone che, per vecchiaia o per malattia, non erano in grado di lavorare, oltre alle vedove e ai bambini in tenera età) e non agli abili al lavoro.
Va notato tuttavia come i poveri non meritevoli non erano del tutto alienati dal lavoro (come per esempio i vagabondi e i briganti) ma venivano accolti nelle workhouse per essere redenti moralmente e accrescere la loro occupabilità. Le condizioni di vita nelle workhouse potevano anche variare da contea a contea, sebbene tutte si ispirassero al principio della less elegibility, secondo quale la condizione dei poveri assistiti non doveva essere «in alcun caso preferibile alla situazione dei lavoratori delle classi inferiori che si mantengono con i frutti del proprio lavoro». Tuttavia, a differenza delle prigioni, durante il giorno era possibile lasciare temporaneamente le workhouse per svolgere una attività lavorativa (i lavori all’esterno della workhouse erano regolamentati dall’Outdoor Labour Test Order del 1842). In tal senso la «curvatura lavoristica» che oggi si rimprovera al Reddito di cittadinanza nella versione per così dire «italiana» è parte della storia stessa dell’intervento sui poveri e non costituisce affatto un'anomalia.
Le vicende storiche che ho sinteticamente richiamato ci aiutano a collocare la questione del diritto di vivere in una prospettiva diversa sia dai detrattori del Reddito di cittadinanza «all’italiana» sia dagli aderenti al Basic Income Earth Network. Per questi ultimi il reddito di base universale rappresenta un momento di discontinuità, se non una vera e propria rottura, con ogni altra forma sin qui sperimentata di intervento a sostegno dei poveri: una «utopia reale», secondo la definizione di Erik Olin Wright, ossia una proposta radicale ma ragionevole.
Ma, per quanto il processo di individualizzazione e di libertà dal lavoro che esso delinea possa apparire come la più piena realizzazione del progetto di costruzione consapevole dell’individualità proprio della prima modernità, in verità è diverso. Esso infatti resta ancorato a una concezione atomistica dell’individuo, che può corrispondere effettivamente al desiderio di cercare sempre nuovi modi di soddisfare le proprie inclinazioni e di realizzare sé stessi, ma da solo non può sostituire il potere di autorealizzazione di sé e di presupposto della socializzazione del lavoro, che sopravvive anche nelle condizioni presenti di insicurezza che succedono ai diritti sociali e alle protezioni legate alla società salariale.
Slegato da un intervento sul mercato del lavoro il reddito di base può dar vita a un adattamento dell’individuo a un’aleatorietà indesiderata delle condizioni della propria esistenza (l’«individuo per difetto» di cui parla Robert Castel) togliendo spazio alla formazione di quelle solidarietà di classe e collettive che avevano caratterizzato la storia della modernità fino ad ora, dando luogo a nuove forme di protezione sociale in opposizione al potere disciplinante tanto dell’autorità datoriale quanto delle leggi sui poveri. Tali forme di solidarietà non erano basate solo su un’effettiva comunanza di interessi e di condizioni di vita ma anche, come sottolinea Richard Sennet (Il lavoro e le sue narrazioni, in A.Honneth, R. Sennet e A. Supiot, Perché lavoro? Narrative e diritti per lavoratrici e lavoratori del XXI secolo, Feltrinelli, 2020), sulla condivisione di una storia, nella quale nessun personaggio ha un significato all’interno della trama senza far riferimento agli altri. E questa storia non può essere raccontata dal surfista solitario di Malibù.
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