Massimo ce l’ha fatta. Ha vinto. Dal cocuzzolo dell’acropoli di una città sepolta, i trilli croccanti di Scarlatti e le rondate d’arpeggi di Chopin sprigionano la gioia di un uomo nuovo. È la notte del 21 agosto 2012. Massimo Coccia mi ha invitato al suo ritorno alla musica suonata. Dopo tanti anni trascorsi a organizzare concerti di successo, raggiungendo traguardi di eccellenza tra cui il premio “Nino Carloni”, conferito al miglior organizzatore musicale d’Abruzzo, stasera lui è semplicemente il Maestro Coccia, il pianista.
Brillano già le stelle quando arrivo ad Alba Fucens, quelle stelle che le fanno compagnia sin dal 304 prima di Cristo, quando fu fondata come colonia di diritto latino, forte dei suoi mille metri di altezza da cui poter ammirare l’alba sull’estinto lago del Fucino. Parcheggio nella città nuova, stretta tra l’antico insediamento romano e un misterioso borgo medioevale, abbarbicato lungo i tornanti e battuto da un vento sferzante. Per raggiungere la chiesa romanica di San Pietro d’Albe bisogna riporre le scarpe da sera, seguire un sentiero puntellato da fiaccole e percorrere passi lastricati dalla pietra, ascendendo a un luogo di preghiera da secoli. Qui sorgeva il tempio consacrato ad Apollo, che attirava i fedeli nel culto della luce nascente, riflesso in un nome dal carisma magnetico, Alba Fucens, quale inno al Dio Sole sotto lo sguardo benedicente del monte Velino.
Il tempo ha trasformato il tempio in chiesa, che oggi si schiude al visitatore come una sorpresa preziosa, colma di simboli apotropaici, mostruosi e a spirale, un uomo dalla cui bocca escono due serpenti, mascheroni, poi rose, frutti, animali; tracce esoteriche della storia cristiana. Al centro un pianoforte, stretto da un pubblico traboccante ed elettrico: aspettativa e attesa del pianista che appaia semplicemente come tale. Oltre l’iconostasi cosmatesca, la sagoma incorniciata dalle colonnine tortili sormontate dai capitelli fogliati, c’è Massimo. Il volto è concentrato a tra pochi istanti, quando nelle acque bianche e nere scioglierà un nodo tenuto stretto per anni.
Questo è il concerto della liberazione. Liberazione da un giogo di cui ha deciso di raccontare alla sua saggia terra, per aiutare i musicisti che in segreto vivono ciò che ha vissuto già lui. Perché la battaglia che ha combattuto per dieci anni si può vincere, basta sapere al più presto come fare e come chiamarla. Il suo nome è distonia focale. “6 gennaio 2002: quel giorno realizzai che da un po’ percepivo uno strano fastidio, ma non proprio dolore, al quinto dito della mano sinistra”. Fu l’inizio dell’incontro con la distonia, un male oscuro, da qualcuno tremendamente definito l’aids dei musicisti. Una patologia che avanza silenziosa e graduale, impossessandosi degli impulsi che comandano l’azione naturale del suonare o del cantare.
In realtà non si sa abbastanza della distonia, e ancor meno se ne parla, ed è per questo che Massimo esce allo scoperto. Chi ne è colpito la cela con ingiusto pudore, come ne avesse colpa. Ma non è colpa di nessuno, non è frutto di un rapporto non protetto con la musica, di cattivo studio o di trascuratezza. Semplicemente può capitare. Il cervello si disconnette al braccio, o al labbro, o alle corde vocali, e senza rendersene conto quella porzione di corpo scivola in una postura interiore via via sempre più distorta, provocando uno scompenso che predispone a movimenti di compenso, inconsueti, più estesi, forzati.
Trascorrono ancora mesi di convivenza con un male lasciato libero di dilagare, finché Coccia si ritrova a suonare trattenendo a fatica la sofferenza fisica: “Iniziai un percorso infinito di massaggi d’ogni genere, osteopatia, agopunture, elettromiografie, ecografie ai tendini, risonanze alla cervicale, alla mano, persino al cervello”. Ma da un punto di vista neurologico tutto era a posto: “Il mio fisico era sano, ma io come pianista iniziavo a morire”. Dopo oltre un anno, la telefonata a un’amica lo porta a conoscenza di un chirurgo della mano, uno specialista dei musicisti, Renzo Mantero. Dopo neanche quindici minuti la diagnosi: inizio di distonia focale al quinto dito della mano destra. “Mi rassicurò dicendomi che si tratta di una patologia molto più diffusa di quanto si pensi, ma mi avvertì che sarei riuscito ad accorciare il lungo tragitto riabilitativo solo se avessi seguito alla lettera un percorso fatto di poche medicine e molta fisioterapia”. Gli viene disegnato un tutore rigido, che incamicia il dito colpito, e prescritto un miorilassante studiato per curare le epilessie dei neonati, per consentire ai piccolissimi muscoli interossei delle falangi di distendersi. Così comincia a comprendere sulla sua pelle di cosa si tratti esattamente: “La distonia è stata per anni interpretata quale patologia esclusivamente neurologica. In realtà l’interruzione degli input dal cervello sono la conseguenza, e non la causa, della debolezza muscolare a seguito dell’esercizio intenso e pluriennale sullo strumento: questa debolezza porta le dita a cedere e a condizionarsi nel cedimento, al punto da non poter più eseguire, per nessuna ragione, la scala di do maggiore”.
Seguono anni difficili, anni di leggeri miglioramenti e di lunghe stasi. La voglia di suonare, di provare a studiare seguendo una propria disciplina, avevano istintivamente la meglio sulle prescrizioni. Sino al 2004, l’inizio della svolta: “Con grande forza di volontà ho ricominciato daccapo: trenta minuti al giorno di esercizi di fisioterapia. Gradatamente le dita cominciarono a riallinearsi, sino a che anche il quinto dito della mano sinistra riprese a non volare più verso l’alto”.
Verso l’alto, stanotte, vola soltanto il concerto della vita di Massimo, l’amore riamato del pianoforte, l’abbraccio da questa sommità a tanti artisti in lotta con il loro stesso corpo. Gli Dei della musica sono con voi.
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