Per i democratici americani, e per gli americani tutti, fare i conti con la sanità pubblica e privata non è mai un pranzo di gala. E così, prima ancora che esistano dei disegni di legge per istituire un Medicare-for-all – come da molte promesse elettorali passate e future, oppure un qualunque altro sistema sanitario nazionale che gli somigli – esiste già la lobby organizzata per strangolarli nella culla. L’industria farmaceutica, le assicurazioni private, le associazioni dei medici, le grandi catene o federazioni ospedaliere sono al lavoro febbrilmente. In pubblico prendono in giro le fantasie riformatrici dei democratici, soprattutto della loro ala più progressista, ma in privato le prendono molto sul serio. Non c’è da scherzare su queste cose. C’è così poco da scherzare che, dopo averla a suo tempo poco amata, hanno persino cominciato ad amare Obamacare – va bene, benissimo, è splendida, ma basta così.
La lobby, scrive il “New York Times”, si chiama Partnership for America’s health care future. A guidarla è Lauren Crawford Shaver, una ex dirigente della campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016 che aveva l’incarico di seguire le elezioni Stato per Stato, proprio là dove la campagna fallì. Chissà se il fallimento di allora le porterà fortuna, ora che è passata alla concorrenza. Gli argomenti moderati sono i soliti: il settore pubblico è inaffidabile, non si può buttare tutto all’aria, gli americani sono contenti così, eccetera. Gli argomenti gaglioffi arriveranno presto. Sono e saranno gli stessi usati con successo selettivo contro le riforme di Lyndon Johnson nel 1965 (Medicare e Medicaid) e di Obama nel 2010 – ma con un successo micidiale contro i tentativi dell’amministrazione Clinton elaborati proprio da Hillary nel 1993. E con successo letale ed epocale contro l’amministrazione Truman settant’anni fa.
Quella di settant’anni fa è una storia interessante, che parla di una svolta storica. A guerra finita Harry Truman, appena diventato presidente, riprese un progetto che Roosevelt aveva coltivato durante la guerra, e che a causa della guerra era stato rinviato. E cioè la creazione di una assicurazione sanitaria nazionale di tipo universale che superasse i limiti e le diseguaglianze della Social security degli anni Trenta: una assicurazione gestita dal governo federale, aperta a chiunque lo volesse, ma opzionale. Chi ne aveva la possibilità e il desiderio avrebbe continuato a sottoscrivere i propri piani privati o aziendali. Truman, in un messaggio al Congresso del dicembre 1945, si premurò di rassicurare i concittadini:
“Niente di tutto ciò è davvero nuovo. Gli americani sono il popolo più incline ad assicurarsi del mondo. Non si faranno spaventare da una assicurazione sanitaria solo perché qualcuno l’ha erroneamente chiamata “medicina socializzata”. Lo ripeto – ciò che raccomando non è medicina socializzata. Medicina socializzata vuol dire che tutti i dottori lavorano come dipendenti del governo. Il popolo americano non vuole un sistema così. E un sistema così non è qui proposto.”
Il presidente conosceva i suoi polli. Le sue idee furono tradotte in un disegno di legge firmato da due autorevoli democratici esperti della materia, il senatore di New York Robert Wagner e il deputato del Minnesota John Dingell. A questo punto cominciarono le danze. Cioè gli attacchi concentrici dei legislatori repubblicani, che nel frattempo avevano conquistato la Camera e il Senato alle elezioni di medio termine del 1946, e degli interessi farmaceutici e della American medical association. La Ama sfruttò la paranoia anticomunista della nascente Guerra fredda per bollare la misura proprio come temeva Truman: medicina socializzata, cioè socialista, cioè comunista. Anticipò la retorica maccartista accusando i funzionari della Casa bianca di essere “seguaci della linea di partito di Mosca”. Alla fine, nel 1947, ebbero partita vinta.
La sconfitta non parve allora definitiva, ma in prospettiva lo fu. Le idee centrali del progetto ricomparvero nella piattaforma nazionale democratica per le elezioni presidenziali del 1948. Truman a sorpresa le vinse, e le vinse anche il partito, che riconquistò entrambe le camere del Congresso. Ma l’Ama si mostrò più forte di tutti nel suo lobbying, aiutata da decine, centinaia di altre associazioni professionali, in particolare da quella degli avvocati, la American bar association. E aiutata anche dai democratici meridionali ultraconservatori e razzisti. Il disegno di legge fu di nuovo affossato. Nel frattempo i ceti medi e gli operai più organizzati cominciarono a farsi le loro assicurazioni private.
I sindacati ebbero in questo un ruolo cruciale. Avevano offerto il principale sostegno popolare alla riforma, ma a quel punto si stancarono di aspettare e cominciarono a negoziare piani assicurativi aziendali nell’ambito della contrattazione collettiva. Ottennero benefici piuttosto generosi per sé e si disinteressarono del destino delle politiche pubbliche in proposito. I lavoratori più deboli e non organizzati rimasero fuori da ogni protezione, non avendo capacità di influenza né economica né politica. Fu così che le assicurazioni sanitarie private per molti ma non per tutti preclusero la possibilità di assicurazioni sanitarie pubbliche per tutti.
E fu così che il Welfare state degli Stati Uniti rimase quella cosa incompleta e “riluttante” che è ancora oggi. Una caratteristica che alcuni attribuiscono ai tratti culturali, antropologici degli americani – che son fatti così, si sa, degli individualistoni antistatalisti per natura. Ma che sarebbe più giusto attribuire alle vittorie e sconfitte di empirici e verificabili scontri di potere.
Riproduzione riservata