Il 12 settembre il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione che attiva il procedimento nei confronti dell’Ungheria per accertare la violazione sistematica dei valori fondativi dell’Unione europea e la conseguente persistente minaccia allo Stato di diritto.
Il voto è stato definito “storico” su tutti i principali media europei, e certamente lo è in quanto è il primo che il Parlamento europeo esprime ai sensi dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. Lo è anche per le sue indubbie conseguenze politiche, a partire dalla spaccatura che ha provocato all’interno del Partito popolare europeo (Ppe), cui appartiene anche Fidesz, il partito del Primo ministro ungherese Orbán. Com’è noto, la maggioranza (115) dei 219 parlamentari del Ppe ha votato a favore della risoluzione e dunque contro Fidesz, consentendo il raggiungimento della maggioranza dei due terzi dei voti necessari per l’approvazione (i favorevoli sono stati 448). Tra i voti popolari a favore quelli della Övp del presidente di turno austriaco del Consiglio europeo Kurz, e quello del capogruppo Manfred Weber, possibile Spitzenkandidat dei popolari alle imminenti elezioni europee, che sembra così scegliere la “linea Merkel” anziché la “linea Orbán”. Tra i 57 contrari, i voti degli eurodeputati di Forza Italia, che in pieno spirito europeista hanno adottato una decisione tutta in prospettiva nazionale, per non acuire le distanze dalla Lega, gran sostenitrice di Orbán.
Paradossalmente, però, un voto che vuole significare una reazione d’orgoglio del Parlamento europeo contro l’erosione sovranista del ruolo dell’Unione in corso da qualche anno, rischia di trasformarsi in una prova di debolezza.
Innanzitutto le modalità di espressione del voto, e in particolare il computo delle astensioni (28 nel campo del Ppe), sono state oggetto di contestazione e potrebbero essere impugnate davanti alla Corte di Giustizia. Un fantastico assist alle torie complottiste non a caso sostenute da Orbán nel suo discorso al Parlamento europeo subito prima del voto.
In secondo luogo, la procedura è stata attivata con molto ritardo. Il percorso di creazione di una “democrazia illiberale” (parole di Orbán) è in atto in Ungheria dal 2010, quando Fidesz e il suo leader indiscusso hanno assunto il potere, modificando immediatamente la costituzione (2011) e dedicandosi successivamente allo smantellamento dello stato di diritto. Queste violazioni sono state accertate già da tempo da organismi quali la Commissione di Venezia, e il Parlamento arriva già tardi. Figurarsi se e quando si dovesse esprimere il Consiglio, che è l’organo che ha l’ultima parola in merito.
Terzo, il voto si presta alla facile accusa di esprimere la politica dei doppi standard già da tempo criticata nell’Europa centro-orientale. Perché l’Ungheria sì e altri stati che seguono il medesimo corso come la Polonia invece no, o almeno non ancora? È forse una questione di dimensioni e di peso politico, anche all’interno delle istituzioni europee? L’utilizzo strumentale di questo argomento può facilmente aumentare il vittimismo che in molti Paesi (Italia compresa) si sta diffondendo nei confronti dell’Unione europea, fomentato con piacere da chi il progetto europeo intende sabotare.
Non possono inoltre dimenticarsi i deficit strutturali della procedura sanzionatoria di cui all’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. La procedura è complessa, e si articola in una fase preventiva, volta ad accertare il rischio di una violazione dello stato di diritto, e in una fase correttiva, che può culminare con le sanzioni, compresa la sospensione del diritto di voto nel Consiglio per lo Stato in questione. Il voto del Parlamento europeo si situa ancora nella fase preventiva, ed ha la sola funzione di invitare il Consiglio ad accertare la violazione sistematica dei valori europei da parte dell’Ungheria.
Il voto insomma è semplicemente un invito formale al Consiglio ad attivarsi per accertare se ci sia un rischio reale che il governo ungherese stia violando lo stato di diritto. L’articolo 7 prevede tra l’altro che il Consiglio possa inizare la procedura di accertamento solo a maggioranza di 4/5 degli Stati, e possa constatare la presenza di violazioni gravi e persistenti solo all’unanimità. Solo dopo aver superato questi ostacoli il Consiglio potrà comminare le sanzioni, a maggioranza qualificata. È dunque assai probabile, per non dire certo, che il voto del Parlamento non avrà conseguenze pratiche. Insomma, se è vero che l’introduzione del meccanismo di cui all’articolo 7 del Trattato è un passo in avanti rispetto alla totale assenza di una procedura sanzionatoria (com’era prima del Trattato di Amsterdam) e alla possibilità solo di sanzionare o meno senza valutazioni intermedie (com’era prima del Trattato di Nizza), è anche vero che il procedimento è talmente complesso da risultare sostanzialmente inefficace.
Oltre alla complessità della procedura, vi è poi il carattere meramente politico dell’accertamento. Per come è costruito, l’articolo 7 prevede il coinvolgimento delle sole istituzioni politiche. Ma lo stato di diritto è un concetto giuridico, e valutarne il rispetto con criteri solo politici ne indebolisce la forza. Alcuni autorevoli commentatori come il Ceps, individuando il problema, hanno invocato la creazione di un apposito organismo indipendente per il controllo dello stato di diritto, sul modello della revisione periodica delle Nazioni Unite. Sarebbe un ulteriore regalo alla propaganda sovranista, che accusa le organizzazioni internazionali di moltiplicare organismi inutili. Tanto più che esiste già da un decennio una apposita Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali. Per quanto lo Stato di diritto sia qualcosa di più ampio dei diritti fondamentali, il rispetto di questi ne rappresenta una parte consistente. E il fatto che nessuno degli organi finora coinvolti nella procedura contro l’Ungheria (Parlamento e Consiglio) abbia chiesto, come sarebbe in suo potere, un parere tecnico all’Agenzia, è il segnale di una voluta trattazione a livello soltanto politico della questione. Una scelta forse comprensibile in vista delle prossime elezioni europee, per far uscire dall’ambiguità il Ppe. Ma molto meno comprensibile in una logica di sistema, in cui lo stato di diritto non sia lo stato della politica.
Riproduzione riservata