L’analisi del voto a Taranto, nel luogo dell’ultima ridotta dell’industria pesante italiana, non può che partire dall’ormai noto falso d’autore del fac-simile (anzi, il fake-simile) circolato nei giorni immediatamente successivi al 4 marzo.

I cittadini meridionali si accalcavano agli sportelli dei Caf, chiedendo notizie a proposito del reddito di cittadinanza? Gli elettori passavano all’“incasso” della cambiale firmata dai 5 Stelle secondo il racconto del mainstream politico-mediatico, ferocemente avverso al Movimento di Di Maio? Era indispensabile far capire l’inconsistenza della promessa. Prim’ancora che a Roma nascesse un governo. E che cosa, se non un (falso) modulo con la domanda per ottenere il reddito di cittadinanza, allegato alla (inverosimile) notizia delle file oceaniche nei Caf, poteva raggiungere l’obiettivo di svelare l’inganno su Whatsapp, Facebook e via socialeggiando? Si è avuta così l’impressione non solo di uno scontro elettorale permanente, ma soprattutto che “sconforto, sfiducia, disperazione, rancore, odio”, raccontati su queste pagine da Alfio Mastropaolo a proposito del voto nel Mezzogiorno, siano migrati dagli elettori ai partiti sconfitti.

I moduli-burla, a Taranto, sono diventati virali anche per un calcolo politico doppio, se è vero che il fake-simile è apparso sulla bacheca di alcuni notabili del Pd, partito sonoramente sconfitto alle urne, col corollario di commenti che certificavano quella transizione di (ri)sentimenti cui accennavamo. I cittadini avrebbero dovuto autocertificare: “Di non lavorare, di non avere voglia di lavorare, di credere in Babbo Natale”. Che cos’è questo se non disprezzo antropologico? Come se la mappa del voto nei collegi, drammaticamente somigliante a quella degli Stati pre-unitari, non chiamasse proprio la classe politica meridionale a una presa di coscienza della gravità del momento. Invece, con disinvoltura, si è fatto verbo il verso della poesia di Vittorio Bodini: “Tu non conosci il Sud”.

Il doppio calcolo politico sta nel fatto che a Taranto la disoccupazione è a livelli insostenibili, ma esiste la variabile Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, con i suoi 15 mila addetti (indotto compreso). Quei posti sono diventati un mantra politico, soprattutto nella scorsa legislatura. Secondo gli “avvocati difensori” della fabbrica, essi rappresentano ancora un imprescindibile punto di equilibrio se si vuole evitare il caos sociale. La tesi ha ricevuto, prima del voto, l’autorevole crisma di un articolo pubblicato on line sul sito del “New York Times”. L’inviato Peter Goodman ha scelto il capoluogo pugliese come città-paradigma per spiegare il voto di un Paese “troppo depresso per occuparsi di elezioni”, e ha intervistato un giovane tarantino disoccupato per far comprendere ai lettori che “in misura della sua disperazione, il datore di lavoro dei suoi sogni è una acciaieria fatiscente che domina la vita di questa città in declino sul Mar Ionio”.

Al contrario di altre realtà italiane, sarebbe bastato guardare la parabola tarantina del Movimento 5 Stelle per cogliere anzitempo l’esito del voto, partendo dalle elezioni politiche del 2013. Cinque anni fa, alla Camera, i “grillini” ottennero il 27% dei consensi (primo partito in città). Larga parte del voto era espresso dagli operai dell’Ilva.

L’ascesa del Movimento 5 Stelle deriva dalla crisi siderurgica – nel 2012 il sequestro giudiziario dell’acciaieria per disastro ambientale. Le carte erano sparigliate da tempo, quindi, complicando gli squilibri economici e sociali. Questo malgrado (o in ragione) delle scelte fatte dai governi succedutisi negli ultimi sei anni: da Monti a Letta, fino a Renzi. Cucire una serie di decreti su misura per l’Ilva (rivelatisi una camicia di forza per Taranto) non è piaciuto anzitutto agli operai. Come fidarsi dei proclami se rimane ancora ferma, di fatto, la trattativa per completare l’acquisizione dell’Ilva da parte di Arcelor Mittal e nel Pd si è consumato lo scontro sul piano ambientale del governo tra il ministro Calenda da un lato e il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano dall’altro? Come fidarsi se i lavori di copertura dei parchi minerali, che dovevano cominciare da anni, sono partiti solo qualche settimana fa in clima pre-elettorale? Come fidarsi, se poi tutto è rimasto sulla carta e nei fatti sussiste l’assurdo divieto di circolazione imposto a persone e mezzi nel quartiere Tamburi i giorni in cui il vento soffia da Nord, evitando così il contatto diretto con la velenosa polvere delle materie prime Ilva?

Un divieto, contemplato nei decreti del governo, dal sapore segregazionista, una vera e propria apartheid i cui odiosi effetti non hanno eguali nei paesi occidentali: l’autoreclusione dei cittadini e le scuole chiuse; ai bambini di Taranto è, di fatto, negato il diritto allo studio. Come potevano pensare i partiti di governo, il Pd in testa, che questo non spiegasse i suoi effetti sull’immaginario politico collettivo, partendo dalla sensazione che Taranto sia un “protettorato” di Roma e non un Comune italiano cui spetta l’autonomia prevista dall’articolo 114 della Costituzione? Ecco perché il reddito di cittadinanza, paradossalmente, ha rappresentato non una suggestione, ma l’ipotetica ancora di salvezza prima di tutto per chi, come i lavoratori Ilva, un lavoro oggi ancora ce l’ha ma teme di perderlo perché, appunto, la politica è piegata sulla guerra dei fake.

All’indomani dell’ipotesi formulata dagli organi di stampa – un governo M5S-Pd – il Partito democratico tarantino ha affidato a una slide, circolata ancora sui social network, il proprio pensiero. Si legge nel testo: “Il M5S vuole la chiusura dell’Ilva e l’abbandono dell’asset strategico dell’acciaio in Italia. Per il Pd invece è prioritario far arrivare i 3,5 miliardi di investimenti ambientali per ammodernare l’impianto ed evitare esuberi”. Sarebbe facile smontare le due tesi. Il Movimento 5 Stelle non ha mai parlato di chiusura dell’Ilva in campagna elettorale, ma di “bonifica e riconversione”. Termini vaghi, perché si sa che l’argomento è scivoloso. Non sembra esserci la reale intenzione di Di Maio e sodali di arrivare al punto. Quanto ai 3,5 miliardi di investimenti ambientali del governo, rappresentano una tagliola. Le opere di ristrutturazione finiranno nel 2023. Troppi, cinque anni, per la città ostaggio dell’inquinamento. Inoltre, vale sempre la pena ricordare che i conti non tornano se la Procura della Repubblica di Taranto stimò in otto miliardi la spesa complessiva dei lavori di riammodernamento dell’Ilva al netto delle bonifiche esterne allo stabilimento.

Hanno pesato queste ambiguità? Sì, soprattutto sul voto degli operai stanchi di slogan. E desiderosi evidentemente che qualcuno ponesse loro la stessa domanda formulata da Paolo VI quarant’anni fa, durante la visita di Natale all’Italsider: “Chi siete voi?” per raccontare il disagio dei tanti Drogo in tuta dell’ultima fortezza Bastiani dell’industria italiana.

Una postilla, a proposito di guerra politica a colpi di fake. Taranto ha eletto alla Camera, con percentuali democristiane (oltre 60 mila voti, sfiorando il 50% dei consensi) la candidata del Movimento 5 Stelle Rosalba De Giorgi. Una giornalista.

 

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