Le cose per l’amministrazione Biden vanno assai male, sia programmaticamente sia elettoralmente. Tra il disastro in Afghanistan, la pandemia fuori controllo, l’inflazione in ripresa e le furiose liti all’interno dei democratici, la popolarità del presidente è crollata al 42-43%, la peggiore dei suoi predecessori post-bellici, a eccezione di Trump. Una percentuale così bassa non può che danneggiare il Partito democratico nelle elezioni suppletive, come si è visto lo scorso 3 novembre nella sconfitta al governatorato della Virginia, Stato tradizionalmente «blu» (democratico). Il programma di Biden, soprattutto la sua legge  sociale e ambientale da 1,75 triliardi di dollari, è bloccata in Senato con poche possibilità di passare. Il tutto fa presagire il peggio per le elezioni intermedie del novembre 2022.

Con la sconfitta di Trump, la radicalizzazione della vita pubblica americana, già risalente agli anni Novanta, si è approfondita in una vera guerra civile politica che rischia di erodere gli stessi fondamenti costituzionali della democrazia liberale americana.

Una ragione del persistente trumpismo dei repubblicani è stata la vittoria risicatissima dei democratici alle ultime presidenziali in un Paese profondamente diviso senza una chiara maggioranza. Certo, Biden è riuscito a fare di Trump un «one-term president» (un presidente per un solo mandato di quattro anni) contro la frequente rielezione del presidente in carica, ha mantenuto (con perdite) la maggioranza alla Camera, ne ha conquistata una assai striminzita al Senato (50 a 50, col voto della presidente dell’aula e vicepresidente del Paese che determina la maggioranza). All’opposto i tre nuovi giudici nominati da Trump, insieme a molti giudici di rango inferiore, hanno spinto la Corte Suprema in direzione conservatrice, e la maggioranza degli Stati sono a predominio repubblicano.

Una polarizzazione senza vincitori nutre la guerra politica sui temi dell’aborto, dell’emigrazione, della spesa pubblica, della riforma dei collegi elettorali, dell’esercizio del diritto di voto

Questa polarizzazione senza vincitori nutre la guerra politica, spesso esecutivo e legislativo-federale contro poteri statali e giudiziari, sui temi dell’aborto, dell’emigrazione, della spesa pubblica, della riforma dei collegi elettorali, dell’esercizio del diritto di voto, con un tentativo aggressivo da parte dei repubblicani di contrastare le tendenze demografiche (soprattutto la crescita di minoranze non bianche) che dovrebbero favorire una maggioranza democratica. I repubblicani ribadiscono spesso che l’elezione di Biden è stato un furto e l’attacco al Congresso del 6 gennaio un episodio trascurabile. Ne risulta un vero attentato ai diritti politici e civili della cittadinanza democratica.

L’attuale situazione è frutto dei nuovi indirizzi programmatici di entrambi i partiti. Il successo elettorale di Trump, risicato ma sorprendente, certificava il fallimento del centrismo clintoniano. Contro l’ortodossia del taglio fiscale, Biden rilancia tasse progressive su ricchi e grandi imprese, ed enormi piani di spesa pubblica, volti all’espansione della protezione sociale, delle tutele sanitarie e dei programmi ecologici ed energetici: lotta alle diseguaglianze sociali, razziali, sessuali e ambientali.

Il corpo centrale liberal-gradualista del partito sostiene con cautela la svolta, i rodatissimi Nancy Pelosi e Chuck Schumer restano i leader del partito al Congresso, malgrado le critiche della sinistra progressista, Bernie Sanders e la cosiddetta «squadra» congressuale di assertive donne caratterizzate per la loro base etnica. Ma la svolta non piace a tutti: ai «corporate liberals», portavoce di interessi del grande capitale, ai deputati conservatori della cosiddetta «Blue Dog Coalition» alla Camera, oppure ai senatori eletti in Stati trumpiani come Joe Manchin della West Virginia o Kyrsten Sinnema dell’Arizona, che temono di non essere rieletti se si spostano a sinistra.

Adesso questa contraddizione sta affondando la grande legge sociale e ambientale del presidente. Il senatore Manchin è diventato l’emblema del disastro, dato che basta un solo dissidente democratico (poiché nessun repubblicano è disposto a passare dall’altra parte) perché svanisca la maggioranza. Manchin esercita un potere enorme; prima ha ottenuto che il finanziamento della legge fosse dimezzato, adesso ha detto chiaro e tondo, tra le proteste del presidente, che non la voterà. Si mormora che potrebbe addirittura abbandonare i democratici, il che darebbe ai repubblicani la nuova maggioranza.

Una forte contraddizione interna ai democratici sta spaccando il Partito, rischiando ci compromettere seriamente gli sforzi di Biden di innovare le politiche del Paese

Il Partito repubblicano resta trumpiano nella sostanza e nella forma. Gli entusiasti del Maga («Make America Great Again», la sigla del trumpismo) sono più mobilitati e visibili di rari moderati, o nostalgici di Ronald Reagan. Quei pochissimi che hanno apertamente criticato Trump sono oggetto di epurazioni come traditori da parte delle macchine di partito dei loro Stati d’origine. Trump ha l’approvazione di oltre l’80% dell’opinione repubblicana, quindi condiziona i votanti dei suoi critici. Uno scontro aperto con lui è destinato al disastro. Ma sotto l’apparente compattezza corrono dubbi e tensioni, tutte espresse con un linguaggio iniziatico.

Trump resterà il prossimo candidato presidenziale del 2024, o ascenderà a figura iconica, aprendo la strada a un’altra leadership? Al vastissimo favore per la sua figura corrisponde tuttavia un desiderio inferiore al 50% dei repubblicani affinché lui, che oltretutto è già stato battuto alla rielezione del 2020, si ripresenti nel 2024. Senatori già coinvolti nella campagna del 2016 come Ted Cruz del Texas o Marco Rubio della Florida aspettano l’occasione per farsi avanti, beninteso nel nome di Trump e del Maga. Governatori di punta come Ron DeSanti in Florida o Greg Abbott in Texas, che conducono la guerra con leggi statali di restaurazione elettorale, economica e civile, cercano una visibilità che potrebbe promuoverli a leader di un trumpismo post-Trump. E tutti sarebbero lieti se sparisse dal tavolo il tema trumpiano del furto delle presidenziali, che li costringe a menzogne e imbarazzi.

La situazione è assai fluida: i democratici sono in enorme difficoltà con elevate probabilità di perdere le elezioni intermedie del prossimo autunno, i repubblicani sono sospesi tra una ribadita leadership di Trump o un trumpismo oltre Trump con facce nuove. La democrazia americana si vede minacciata nei suoi fondamenti dalla guerra in corso.