In occasione della chiusura dell’anno dedicato alla vita consacrata, il papa ha incontrato cinquemila religiose e religiosi. Con l’informalità cui ormai ci ha abituati, Francesco ha esplicitamente rinunciato al discorso scritto – troppo noioso leggerlo – e ha preferito parlare a braccio.
Uno dei centri della conversazione è stata, ancora una volta, la denuncia della diceria. Il senso della vita consacrata – ha detto il papa – è la prossimità fisica e spirituale con il prossimo, una vicinanza che si fonda sulla conoscenza. Una prossimità “carina”, fondata sull’amore. Con fare scanzonato, Bergoglio ha sorriso nell’evidenziare come nelle comunità religiose non si chiacchieri mai. Applausi per il gesuita, che di vita comunitaria qualcosa ne sa. Altre volte aveva definito i maldicenti “potenziali assassini”, mentre in questa occasione ha usato l’espressione “terrorismo delle chiacchiere”, rinforzando la metafora con parole ancora più ficcanti: chi semina zizzania con parole velenose lancia una bomba e se ne va in attesa degli effetti dell’esplosione. Bisogna fuggire la tentazione di parlare contro fratelli e sorelle, meglio mordersi la lingua. Ancora applausi. La riflessione si è chiusa con un richiamo all’anno della misericordia, nel nome della quale tutti dovrebbero rinunciare a dire male del prossimo. Un comportamento simile, ha concluso il papa, “sarebbe un successo di santità grande per la Chiesa”.
Non è la prima volta e non sarà certo l’ultima in cui Francesco si esprime con fermezza conto malignità e insinuazioni. Non ha risparmiato nessuno, neppure se stesso, come nel luglio 2014, quando mise in relazione la propria condizione di celibe con la tentazione delle chiacchiere, definendo “vita celibataria sterile” quella dell’uomo solo che sentendosi non fecondo si mette a giudicare gli altri, parlando alle loro spalle. Fin dai primi mesi del proprio pontificato, il papa argentino aveva denunciato più volte la minaccia del pettegolezzo nelle omelie di Santa Marta e aveva richiamato la gendarmeria vaticana all’obbligo di non lasciarsi coinvolgere in disinformazione e diffamazione.
Uno degli interventi più significativi sul tema rimanda poi al discorso tenuto da Bergoglio il 22 dicembre 2014 in occasione degli auguri natalizi alla curia romana, dove parlò delle chiacchiere (termine prediletto, quasi paradigmatico, per indicare qualcosa di negativo) e dei pettegolezzi come di una malattia grave della quale non bisogna smettere di parlare. Davanti alla Curia usò termini forti: “seminatori di zizzania”, “omicidi a sangue freddo”, “persone vigliacche”. Che espressioni così nette siano state pronunciate in quella sede non è certo un caso ed è parte di una strategia di comunicazione e di intervento che mira a dare una nuova vita alla Curia romana, una crescita “in comunione, santità e sapienza” per la quale è necessario creare un clima sano.
Ma non è solo ai dicasteri romani che Francesco guarda parlando delle minacce della maldicenza. Anche da questa breve sintesi appare palese come l’insistenza sulla questione riveli il suo posto centrale nel disegno pontificio. Da dove proviene questa preoccupazione? Della volontà di rinnovamento si è detto, ma sembra di poter individuare un più profondo intreccio di ragioni teologiche e storiche, oltre che politiche.
Partiamo dal Vangelo, e in particolare dal discorso della montagna che è stato individuato da molti teologi (Karl Rahner e Hans Küng, per citarne due) come il centro del cristianesimo. Il passaggio che recita “Sia invece il vostro parlare: ‘Sì, sì’, ‘No, no’; il di più viene dal Maligno” (Mt 5, 37) trasmette un messaggio molto chiaro; ripreso dal papa più volte nelle conversazioni con il proprio clero, al quale ha ribadito che ci si deve confrontare faccia a faccia, senza risparmiare critiche oneste. In un’occasione ha affermato di preferire i vescovi che nella Chiesa antica si picchiavano prima di accordarsi piuttosto di quelli che, oggi, costruiscono cordate di potere tramando nell’ombra. Proseguiamo. Nella Compagnia di Gesù, l’ordine religioso di Bergoglio, alimentare la maldicenza è addirittura un motivo sufficiente per l’espulsione (dimissione, nel linguaggio gesuitico). Il comportamento di chi, con le parole, induce a peccare, semina discordia, trama qualcosa contro superiori o confratelli è più grave di chi fa le stesse cose con l’esempio (Costituzioni, Parte II, Cap. 2). Chi agisce nell’ombra può fare più male di chi invece si rivela per quello che è alla luce del sole. Non possiamo dimenticare, infine, da dove proviene il papa, da quell’Argentina in cui, negli anni della dittatura (1976-1983), la delazione era una delle armi più pericolose in mano al governo, premessa per la persecuzione politica, l’annientamento degli oppositori e dei nemici personali. Un’arma che ha ferito Bergoglio e molti altri religiosi, colpiti anche per mano dei propri confratelli.
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