La società del Mezzogiorno, in misura ancora maggiore che nel resto d’Italia e negli altri Paesi europei, è attraversata da preoccupazioni e paure. Sono frutto della lunghissima crisi economica, i cui effetti sono ancora sensibili anche dopo un biennio di ripresa; dell’aggravarsi delle disuguaglianze fra i cittadini, dello “scivolamento verso il basso” delle classi medie, del consolidarsi di aree di sofferenza sociale. Ad esse si sommano preoccupazioni più ampie, legate alla crisi migratoria e alle difficoltà di inserimento della popolazione straniera; agli scoppi di terrorismo.
In questo quadro, sembra diminuire la speranza in soluzioni collettive, come si vede anche dalla forte riduzione della partecipazione elettorale (da ultimo in Sicilia). Apparentemente, chi può si rifugia nella speranza di avere migliori possibilità solo per sé stesso e la propria famiglia. Molti, nel Mezzogiorno, tacciono: forse perché concentrati sulle proprie vicende personali, forse perché scoraggiati. Molti, specie fra i più giovani, cercano fortuna altrove. Non mancano sacche di resistenza, aree più felici, segmenti di economia che stanno riprendendo, dinamiche sociali positive; l’attività di gruppi e associazioni in cui i cittadini partecipano. Gli ultimi due anni hanno riacceso qualche speranza; siamo stati testimoni di eventi positivi. Il Sud ha tante risorse; molte non riusciamo nemmeno a vederle, ma ci sono. Mai abbandonarsi al pessimismo. Ma una certa preoccupazione è giustificata: appare ancora maggioritaria la convinzione che il futuro non sarà meglio del presente. Che le speranze di cambiamento sono poche.
A tutto questo dovrebbe dare risposte la politica, innanzitutto nei territori. Ma mai come in questo periodo, le classi dirigenti meridionali non sembrano in grado di fornirle. Esse oscillano fra due polarità. Da un lato il tentativo di gestire la depressione, limitando il più possibile i danni – della riduzione della spesa o degli investimenti pubblici, o della disoccupazione – soprattutto per i gruppi ad esse più vicini. Un clientelismo con assai meno soldi che in passato, ma forse per questo ancora tenace: che dà speranza di salvezza familiare a chi è ancora vicino a chi conta; che probabilmente ha pesato ancora moltissimo nelle recenti elezioni siciliane, come si è visto dai pacchetti di preferenze. Dall’altro varie modalità di ribellismo: quello di chi disprezza e attacca ogni amministrazione collettiva, con la promessa di una radicale palingenesi appena prenderà il potere; o quello di chi si erge a paladino del localismo contro ogni iniziativa del governo centrale, soffiando sul fuoco delle proteste dei non pochi cittadini che non si fidano più, chiedendo consenso non per idee o progetti ma per se stesso. Men che meno sembrano arrivare risposte dalla politica nazionale: la interminabile campagna elettorale che si è avviata è fatta di battute, colpi di teatro, scandali, grida e strepiti. Di tutto, tranne che di un confronto, serrato ma serio, sulle risposte che è necessario dare all’intero paese, ed in particolare alle sue parti, sociali e territoriali, più in difficoltà.
Ci si avvia verso elezioni dall’esito scontato, in cui tantissimi non voteranno? Può darsi, ma è impossibile escludere sviluppi inattesi, anche per il nuovo meccanismo parzialmente maggioritario. Ma anche per quel che vediamo all’estero. Nell’ultimo biennio molti dei principali Paesi sono stati segnati dalla “vendetta dei luoghi dimenticati”. Ne ha fatto recentemente una ricca analisi comparativa Andres Rodriguez Pose, brillante geografo economico che insegna alla London School of Economics. L’elezione di Trump è stata dovuta al comportamento elettorale di alcuni stati in crisi del Midwest, e al loro interno, di specifici distretti. La Brexit è stata dovuta al forte voto favorevole delle aree “depresse” dell’Inghilterra del Nord, che ha sovrastato quello di Londra e del Sud-Est. In Francia il consenso elettorale di Marine Le Pen è stato molto più forte nelle regioni più in crisi, e assai scarso, ad esempio, a Parigi. Ma anche nelle recenti elezioni tedesche, il partito di estrema destra AfD ha raccolto consensi lusinghieri nell’ex Germania Est, in particolare nelle aree rurali. Sembrano emergere insomma, insieme alle tradizionali differenze politico-sociali, nuove fratture politiche su basi geografiche: fra aree e regioni nelle quali la crisi è passata o sta passando e in cui si diffonde un ragionevole ottimismo, e aree che appaiono ai propri cittadini colpite più duramente, e “dimenticate” dalla politica; in cui dilaga la preoccupazione e la sfiducia; e che, nella cabina elettorale, si “vendicano”.
Al momento non è chiaro se e come qualcuno potrà intercettare queste tensioni sotterranee anche nel Mezzogiorno. Forse qualche imprenditore della paura o della rivolta, che sappia mobilitare gli elettori – come è avvenuto nei casi che si citavano prima – contro un nemico esterno, cui addossare tutte le colpe: la globalizzazione, l’Europa, gli immigrati. Forse nessuno, per il momento. Ma il rischio che le tensioni che covano possano manifestarsi, che il silenzio del Sud possa trasformarsi in un grido scomposto, non va sottovalutato. Da questo la speranza, flebile ma da coltivare, che le elezioni possano rappresentare un’occasione per confrontarsi sull’eguaglianza dei diritti dei cittadini del Sud e sulle responsabilità dei loro amministratori, nel quadro di una indispensabile revisione dei rapporti fra autorità centrali e locali. L’Italia sembra aver completamente dimenticato il Sud, immaginando forse che esso resti così com’è: è bene invece tornare a pensare al fondamentale contributo che può offrire al rilancio dell’intero paese, evitando che i dimenticati, un bel giorno, si vendichino nelle urne.
[Questo articolo è pubblicato anche su «Il Mattino» del 19 dicembre 2017]
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