Il percorso di qualificazione per i mondiali di calcio brasiliani del 2014 è inevitabilmente lungo, specie per una giovane nazionale come quella palestinese (riconosciuta dalla Fifa solo nel 1998), che prima della fase a gironi ha dovuto affrontare un duplice turno preliminare.
Dopo l’Afghanistan al primo turno, superato con una storica vittoria in trasferta e un pareggio casalingo, il tabellone ha riservato la Thailandia. Andata in trasferta per i palestinesi che, all’I-mobile Stadium, sono stati sconfitti per 1 a 0. Alla vigilia del turno di ritorno abbiamo incontrato e ascoltato la voce del direttore tecnico di questa nazionale senza Paese.
La sede di Palestine Football Association è a Ramallah, ma arrivarci non è troppo semplice
La sede di Palestine Football Association (www.pfa.ps) è a Ramallah, ma arrivarci non è troppo semplice. Dopo diversi tentativi di mostrare a taxisti un biglietto con l’indirizzo, e dopo innumerevoli fallimenti, Mona Dabdoob, la segretaria di Pfa, parla direttamente con il taxista e finalmente gli spiega dove portarmi. Il viaggio si rivela piuttosto complicato. In termini di distanze e orientamento, è come chiedere a qualcuno in piazza Duomo, a Milano, come arrivare fino a una stradina sconosciuta nei pressi dell’autostrada per Genova. Dopo aver attraversato la città, girato intorno alla montagna, superato campi di ulivi assolati, aver perso totalmente il senso dell’orientamento, la sede ufficiale della Nazionale palestinese l’abbiamo trovata in un edificio grigio e anonimo, abbastanza isolato, nei pressi – credo – della strada che porta al check point di Qalandia, quindi a Gerusalemme.
Bevuto il consueto caffè e conosciuto l’allenatore francese, eccomi nell’ufficio di Mr. Mazen Khatib, che da subito comincia a spiegare cosa vuol dire cercare di giocare a calcio in Palestina. Con qualche premessa: “il significato di giocare a calcio in Palestina, e quindi nel mondo, ha un valore molto più ampio di quello che si possa immaginare. Abbiamo avviato una nuova strategia e sappiamo che abbiamo bisogno del mondo. Vogliamo che il mondo ci veda come popolo che vive in pace, ed è anche per quello siamo entrati nella Fifa. Prima del 2008 nessuno aveva mai sentito parlare di Palestina come di una squadra di calcio, ma oggi stiamo entrando in tutte le organizzazioni sportive. Prima Palestina significava solo suicide bombers, oggi ci riconoscono come una squadra che gioca a pallone”.
Il popolo palestinese ha voglia, e anche bisogno, di essere riconosciuto come friendly, di essere pensato dal mondo come un qualsiasi altro popolo. “Essere in questo stato di vita di occupazione è una cosa che entra nelle minime cose della vita quotidiana. Lasciamo perdere i tantissimi check point in tutta West Bank, ma non abbiamo diritto neanche di sposare chi vogliamo (io, come palestinese, non potrò mai sposare una donna siriana, iraniana, libanese…). L’occupazione entra nelle tue emozioni, non hai diritto di amare, non solo di non giocare a pallone. Non possiamo muoverci. Io non posso andare a Gerusalemme (che da Ramallah dista circa 15 km). Viaggiare è un modo per vedere cosa vuol dire 'Occupazione'. Noi, come squadra, a volte non abbiamo il permesso per tutti i giocatori di uscire dai Territori, da casa nostra, e, comunque, il permesso di uscire va chiesto almeno un mese prima al governo israeliano. Non possiamo comprare un giocatore, anche se palestinese a tutti gli effetti, che vive a Shatila. La vita diventa impossibile, anche nelle cose più semplici. Israele ha, per esempio, bloccato per sei mesi un container che ci aveva inviato il presidente dell’Uefa, Michel Platini, da Parigi. Erano magliette e palloni per far giocare i bambini. Abbiamo dovuto pagare 15mila dollari per sbloccare il container, dopo sei mesi”.
Il popolo palestinese ha voglia, e anche bisogno, di essere riconosciuto come friendly, di essere pensato dal mondo come un qualsiasi altro popolo
Il fatto che la Palestina sia legata all’Italia, almeno in senso calcistico, lo aveva già dimostrato Sandro Pertini quando, come da queste parti ricordano con orgoglio, dopo la vittoria spagnola dei mondiali nel luglio del 1982, e dopo il massacro di Sabra e Shatila nel settembre dello stesso anno, aveva portato la coppa ad Arafat, a Beirut. I palestinesi avevano fatto festa, nel 1982, per la nostra vittoria. A Ramallah, nel 2006, sembrava di essere per le strade di Roma o Milano, per i festeggiamenti e le mille bandiere italiane portate in trionfo nelle strade.
Proprio l’anno scorso, quando la nazionale italiana Under 21 è arrivata in Palestina per giocare una partita, due ufficiali della squadra italiana si sono commossi nel vedere le 15mila persone che hanno gremito lo stadio. Lo ripete tante volte, quasi non volesse credere alla situazione che i palestinesi continuano a vivere: “siamo Uomini…”. Tanto semplice, ma anche tanto impossibile. Mazen Khatib vede l’occupazione tutti i giorni. Per arrivare a Amman, Giordania, da Ramallah ci sono circa 80 km. Ma ci vogliono 4 o 5 ore di attese alla frontiera per passare, se va bene. “Anche per chi viene a trovarci, le cose non sono semplici. Per far arrivare i giocatori thailandesi, con cui giocheremo il ritorno nei prossimi giorni, abbiamo dovuto chiedere il permesso 25 giorni prima. Se vogliamo comprare un giocatore italiano per farlo giocare in una delle nostre squadre, non possiamo, perché Israele non dà il permesso. Il nostro allenatore è francese, come quello della nazionale israeliana. Il nostro ha un visto, da sempre, di un solo mese alla volta, quindi deve tornare sempre in Francia per rinnovarlo. Quello israeliano ha da subito avuto un visto di un anno. Il nostro portiere, di ritorno dalla Thailandia, è stato trattenuto per alcuni giorni senza che gli si desse il diritto di rientrare. Questo è quello che ci succede ogni giorno”.
Difficile, se non impossibile, comprendere e cercare di orientarsi in una situazione tanto militaresca. “Ma siamo persone, abbiamo bisogno che la gente del mondo capisca e veda che abbiamo bisogno di loro. E abbiamo bisogno di essere liberi. Abbiamo bisogno del diritto che il nostro allenatore abbia un visto di un anno, di ricevere i container che ci mandano da Parigi. Siamo l’ultimo Paese occupato. Nel 2012 vorremmo poter vivere in pace con i nostri vicini. Se ci danno il diritto di esistere”. Il ritorno allo stadio Faisal Al-Hussein (ex dirigente dell’Olp) di Al-Ram, sobborgo di Ramallah, si è concluso con un pareggio 2-2, che ha aperto le porte del girone di qualificazione alla nazionale thailandese. Dovremo quindi aspettare il 2018 per sperare di vedere la nazionale palestinese giocare la sua prima partita mondiale.
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