Il recente scioglimento di cinque consigli comunali calabresi (Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Marina di Gioiosa Jonica, Isola Capo Rizzuto, Petronà) per presunti condizionamenti della criminalità organizzata di tipo mafioso ha provocato la consueta reazione dei sindaci delle amministrazioni locali coinvolte. Tra questi il sindaco di Lamezia Terme, avvocato, che il governo accusa di essere rimasto per circa nove mesi, dopo la sua elezione, difensore di fiducia di alcuni esponenti delle cosche lametine imputati in processi di criminalità organizzata ove vi era contemporaneamente la costituzione di parte civile del comune. Soltanto qualche mese prima della sentenza d’appello sarebbe intervenuta la rinuncia al mandato, assunto dal fratello della moglie (lei, magistrato).
Il sindaco ha ribattuto che l’accusa è un falso ideologico, oltre a lamentarsi di non aver potuto interloquire con l’apparato statale. Da qui una serie di appelli ai valori della democrazia locale, mista ad accuse di mortificazione dello Stato di diritto. Si ripropone insomma, nei comuni sciolti dal governo, il tema del “complotto”, che ha caratterizzato negli anni scorsi le atmosfere politiche locali post scioglimento (sulla vicenda di Reggio si veda V. Mete, Reggio Calabria tra mafia e dissesto. «il Mulino», n. 2/2013).
Ora non è ovviamente il caso di soffermarsi su ragioni e torti. Ma sorgono spontanee alcune considerazioni più generali. Anzitutto, quella del sindaco-avvocato è una figura che s’incontra di frequente nell’esperienza amministrativa locale italiana; ed è una figura politicamente contestata un po’ ovunque, non solo a Lamezia Terme.
Nell’estate scorsa il sindaco di Aulla (Massa-Carrara) è stato invitato da una consigliera comunale a dimettersi in quanto difensore di fiducia di alcuni carabinieri, indagati per aver formato un sodalizio locale di polizia giudiziaria particolarmente incline ad abusi e maltrattamenti. Dalle intercettazioni riportate sul «Fatto quotidiano» (online, 17.6.2017) sembra emergere una sorta di «codice d’onore» dell’unione: «Quello che succede all’interno della macchina […] rimane all’interno della macchina, non deve scoprirlo nessuno, dal brigadiere in su. È cosa nostra, proprio come la mafia!».
È ovvio che a Lamezia le cose stanno diversamente. Là, c’è davvero la mafia. Infatti, al sindaco di Aulla è bastato ricordare la pura e semplice verità: che nessuna norma gli vieta di fare contemporaneamente anche l’avvocato. Le cause di ineleggibilità e di incompatibilità degli amministratori locali sono stabilite dalla legge e devono considerarsi tassative, in quanto circoscrivono l’esercizio di un diritto democratico fondamentale qual è quello di accedere alle cariche pubbliche. L’importante, ha precisato il sindaco di Aulla, è che i suoi poteri vengano esercitati in modo corretto: si guardi insomma alla obiettività dei fatti, non a un’astratta coincidenza tra carica pubblica e attività professionale forense, che la legge non considera tra le limitazioni del diritto di elettorato passivo.
Questo discorso, giuridicamente impeccabile, non dovrebbe forse valere anche per il comune di Lamezia Terme? No, perché là i maxiprocessi o le indagini coordinate di polizia giudiziaria hanno portato alla luce, insieme alla vitalità delle cosche lametine, la loro infiltrazione nei corpi politici e amministrativi locali. Perciò quel fatto, politicamente discutibile, ma giuridicamente lecito, diventa in Calabria un palese indizio di contiguità tra criminalità e pubblica amministrazione. È ovvio, si sa – sembra di sentir dire – che l’avvocato di fiducia dei mafiosi farà il sindaco nel loro interesse. Ennesima prova della natura interclassista della mafia, della sua capacità di condizionare le classi dirigenti e l’intero tessuto politico, economico e sociale del territorio amministrato.
Il confronto con il caso di Aulla mostra però anche una certa consistenza del versante più impopolare del problema: la vastità del potere attribuito al governo dall’articolo 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. Norma che permette di sciogliere precauzionalmente i consigli comunali e provinciali nel caso in cui emergano «concreti, univoci e rilevanti» indizi di un collegamento diretto o indiretto degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso.
Un «collegamento» che può aversi, spiega la giurisprudenza, malgrado gli amministratori non abbiano commesso alcun reato e persino quando non abbiamo mai infranto alcuna norma giuridica. Basta, in pratica, il semplice sospetto. Anni fa, quando la Corte costituzionale respinse la questione di legittimità della norma, mentre era ancora vivo il ricordo dei fatti sanguinosissimi da cui era nato il decreto legge n. 164 del 1991 (l’attuale articolo 143), un illustre studioso scrisse che su quella sentenza (n. 103 del 1993) aveva influito il timore della Corte di finire sui rotocalchi televisivi, di non apparire come un corpo schierato nella lotta alla mafia, nonostante fosse chiaro che la legge non risponde ad altro che allo «stato di eccezione», contro i più elementari requisiti di certezza del diritto.
Tutti lo sappiamo. L’articolo 143 del decreto legislativo n. 267 del 2000 ha senso solamente se si postula la certezza del sapere esperto, tecnicamente fondato, dell’antimafia professionale. E malgrado gli innegabili profili di convenienza a mantenere questo tipo di disposizione, il confine tra uno strumento efficiente di prevenzione della mafia e un mezzo, inaccettabile in uno Stato di diritto, di dipendenza della democrazia locale da un atto di fiducia del governo, resta, fin che la norma non sarà riformata, un confine evanescente. Le vicissitudini del sindaco-avvocato ne sono una dimostrazione.
Ora il primo cittadino di Lamezia Terme potrà impugnare al Tar il decreto governativo di scioglimento, ma dovrà probabilmente difendersi dalle accuse di incandidabilità alle prossime elezioni mossegli dal governo davanti al tribunale civile. Un giudizio, questo, non vincolato a ciò che la Commissione d’accesso ha ritenuto, e che si potrà concludere con una decisione pienamente favorevole al sindaco. Non è la prima volta che un consiglio comunale viene sciolto per presunti condizionamenti o infiltrazioni mafiose rivelatisi, poi, inesistenti nel processo civile a carico degli amministratori che ad avviso del governo portavano la responsabilità del «collegamento». Ma per il comune di Lamezia Terme è oramai troppo tardi: anche in questo caso, l’ente rimane disciolto fino a nuove elezioni (e in questa condizione la città ricorderà il suo cinquantennale, che ricorre proprio in questi giorni).
Il 2017 è stato l’anno del trentennale dell’articolo di Leonardo Sciascia I professionisti dell’antimafia («Corriere della Sera», 10.1.1987) il quale ancora, com’era prevedibile, divide le opinioni di esperti e protagonisti dell’esperienza italiana (e su cui aveva già ragionato Rocco Sciarrone qui). E viene in mente quel sindaco che, nella narrazione di Sciascia, professandosi impegnato nella lotta alla mafia, rafforza e consolida il proprio potere, rendendolo immune da ogni ipotetico tentativo di opposizione politica, che, a quel punto, «per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma», non potrebbe che «essere facilmente etichettato come “mafioso”».
Che il riferimento indiretto di Sciascia a Leoluca Orlando fosse del tutto fuori luogo, è stato giustamente sottolineato. Ma c’è una intuizione del letterato siciliano che va al di là dei suoi errori. Lo Stato di diritto, la democrazia, deve lottare contro la mafia, ma anche fare attenzione a che i poteri amministrativi antimafia non siano sregolati. Ecco allora quella «morale» che Sciascia, denunciando la mancanza di «spirito critico», contro ogni «retorica», traeva dalla sua favorevole recensione al libro dello storico inglese Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo: «… da tener presente. L’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico».
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