Tanto per cominciare, chiediamoci se sia possibile parlare del Sessantotto, del suo mito e di quello che ci ha lasciato in eredità evitando di cadere sia nelle nostalgie romanticheggianti del reducismo sia nell’avanguardismo postumo che giudica arretrato e poco significativo tutto ciò che è successo prima.L’artificio retorico serve per concludere che è possibile farlo, ma è onesto ammettere che è piuttosto difficile.

Si può partire ricordando banalmente che il Sessantotto è una di quelle date simbolo che si usano come spartiacque, ma che in realtà sono semplicemente un punto di arrivo non meno che un punto di partenza, in una certa vicenda storica. C’è una storia prima di quell’anno divenuto fatale nella rappresentazione della nostra memoria. E c’è stata una storia che è continuata anche dopo. Quel che era accaduto prima confluì nel tumultuoso svolgersi di quei mesi e quel che accadde allora continuò a scorrere nelle vicende che vennero dopo.

Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole. La storia europea aveva conosciuto altri anni simbolici. Siccome il Sessantotto fu da tanti punti di vista una rivoluzione di intellettuali, sarebbe naturale riandare a quell’altra «rivoluzione degli intellettuali» che fu il 1848 (la definizione è dello storico britannico sir Lewis Namier). Anche allora i moti di quel marzo vennero poi monumentalizzati come una frattura, ma gli storici hanno mostrato come nascessero da una evoluzione precedente che lì trovo sbocco, tanto che la storiografia tedesca ha elaborato una categoria per questo e l’ha chiamata il Vormärz (il pre-marzo).

Anche in quel caso i giovani che furono protagonisti di quei momenti divenuti poi «gloriosi» si trasformarono in classe dirigente degli anni seguenti e quelli che non vi riuscirono divennero reduci pronti a censurare tutto ciò che sarebbe stato fatto dopo dall’alto delle loro passate militanze nelle giornate cruciali (erano le «vecchie barbe», come venivano chiamati in Francia). Dunque anche per il Sessantotto si possono elencare prodromi senza difficoltà. La stabilizzazione post 1945 era stata inizialmente piena di speranze creative, si era poi irrigidita nella spirale della guerra fredda, aveva ripreso slancio con la svolta che era sembrata affacciarsi in Europa e negli Stati Uniti fra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, per poi di nuovo arenarsi nella palude conservatrice apertasi dopo la metà di quel decennio.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/18, pp. 58-66, è acquistabile qui]