Non passa giorno senza che qualche statistica internazionale metta in luce il ritardo italiano in settori cruciali per il nostro futuro. In una società ferma sul piano demografico e sociale, con un’economia poco competitiva e un settore pubblico che per decenni ha trasferito risorse «al contrario» (dal futuro al presente, tramite deficit e debito), l’unica chance di arrestare il declino è investire per il lungo periodo. Ricerca, innovazione, infrastrutture, tecnologia. E soprattutto capitale umano: asili, scuole, università, formazione, servizi sociali per l’inclusione, la conciliazione, il sostegno all’occupabilità. Insomma il complesso di misure che l’Unione europea chiama «investimenti sociali». Senza incisive riforme che sappiano dare impulso a questi settori, il declino europeo e quello italiano in particolare non si arresteranno.

Governare per il futuro non è certo un’impresa facile. La discrepanza temporale tra gli investimenti necessari (che impongono costi nel presente) e i loro effettivi benefici (che si dispiegano in modo lento e graduale, senza garanzie certe) richiede un grado di pazienza politica da parte degli elettori che non è facilmente disponibile nelle democrazie contemporanee. I ritardi italiani segnalano però un tasso di “corto-termismo” davvero patologico, esito di gravi carenze nella nostra cultura politica, nella competizione fra partiti, nelle pretese dei gruppi d’interesse, nelle prassi di governo. Carenze amplificate dalla quasi totale assenza, rispetto ad altri Paesi, di strutture pubbliche e private capaci di parlare, per così dire, a nome del futuro (delle nuove generazioni) e dei suoi “imperativi” per chi oggi governa.

Sul piano comunicativo, Matteo Renzi ha adottato sin dall’inizio un discorso imperniato sui temi del cambiamento e della rottura con il passato. Pur non priva di una sua ratio in un contesto come quello italiano, la retorica sulla rottamazione rischia però di rivelarsi inconcludente se non inserita in una cornice coerente dal punto di vista sostantivo e capace di guardare lontano. Nell’azione di governo, la consapevolezza dell’imperativo del lungo periodo è rimasta sinora piuttosto superficiale, sono mancati dati, argomenti giustificativi, un’agenda precisa. Una semplice lettura dei principali documenti programmatici rivela che non siamo in linea neppure con il discorso Ue sugli investimenti sociali. L’infrastruttura «tecnica» a supporto del governo (e della presidenza del Consiglio in particolare) è ancora debole. Anche se il premier ha cercato sin dall’inizio di accentrare a Palazzo Chigi il policy planning, la formazione di un gruppo stabile di esperti ha seguito un percorso lento e tortuoso. Solo nel febbraio del 2016, con la nomina di Tommaso Nannicini (professore bocconiano) a sottosegretario alla presidenza del Consiglio per il coordinamento delle politiche economiche,  questo processo è passato dall’improvvisazione alla sistematizzazione. Tale passaggio ha intuibili vantaggi, ma anche alcuni rischi. Soprattutto se l’adesione al paradigma degli investimenti non si rivelasse sufficientemente radicata e se la squadra di esperti restasse un piccolo drappello di volenterosi, neppure minimamente paragonabile alla force de frappe di cui dispongono molti governi europei su questo fronte, dalla Germania alla Gran Bretagna, dall’Olanda alla Svezia.

Nel sociale, le due riforme più significative sono state sinora il Jobs Act e la Buona Scuola. Nel contesto italiano, si tratta certo di provvedimenti importanti, di rottura con il passato (soprattutto il primo). Nessuno dei due ha tuttavia saputo incorporare al proprio interno in misura adeguata la dimensione intertemporale, che è il quid di ogni politica di investimento. Nel Jobs Act le risorse riservate ai servizi per l’impiego e per l’occupabilità sono state molto modeste. Il piatto forte è stato uno scambio fra riduzione delle tutele contrattuali per i lavoratori dipendenti neo-assunti e incremento delle prestazioni di disoccupazione. È vero che, in una certa misura, questo scambio è stato pensato con finalità dinamiche: una trasformazione graduale nel tempo del mercato del lavoro italiano in direzione degli standard europei. Ma senza efficaci servizi e politiche per l’impiego manca un tassello fondamentale, proprio quello cruciale ai fini dei tassi di occupazione e dell’occupabilità.

Nella Buona Scuola è mancato sia un adeguato discorso comunicativo sia un serio pacchetto di misure riguardo a curricula, competenze (degli insegnanti e degli allievi), legami più stretti con il mercato del lavoro. Ossia gli elementi davvero necessari affinché il sistema italiano di istruzione compia un salto di qualità nella creazione di un capitale umano all’altezza delle sfide. Anche in questo caso, il perno della riforma è stato uno scambio fra i poteri dei presidi e la disponibilità alla valutazione, da un lato, e stabilizzazione dell’esercito di precari, dall’altro lato.

Nell’ultima Legge di Stabilità vi è stato il benemerito tentativo di affrontare il dramma della povertà educativa fra i minori. Vista l’incidenza spaventosa di tale fenomeno, soprattutto nel Sud, l’investimento in questo settore dovrebbe essere da tempo una priorità nazionale. Ma alla fine si è deciso di mettere sul piatto solo centocinquanta milioni, con l’aiuto delle Fondazioni bancarie. Il premier non ha intrapreso nessuna iniziativa comunicativa davvero “anticipatrice” rispetto a questi problemi. Così come ha scelto (?) di non ravvivare uno dei pochi e ambiziosi discorsi future oriented mai lanciati dal centrosinistra in questo paese: l’agenda donne, a cominciare dalla promozione dell’occupazione femminile attraverso l’irrobustimento della rete di servizi sociali.

Di qui al 2018, il clima politico si farà sempre meno propizio a decisioni orientate al lungo periodo. Lo spazio per “attraversare il guado” delle politiche (e della politica, al singolare) del lungo periodo non è tuttavia interamente precluso. I margini fiscali guadagnati in Europa e l’incipiente ripresa economica potrebbero infatti consentire al governo di mitigare/oscurare parte dei costi iniziali dei policy investment almeno in qualche settore. Per fare solo un esempio: sul fronte del contrasto alla povertà (minorile) l’introduzione di una misura nazionale di garanzia del reddito, espressamente calibrata sui bambini più disagiati e le loro opportunità educative, costerebbe pochi decimali di Pil. Un intervento di questo genere potrebbe contare su una rilevante coalizione di sostegno, imperniata sull’Alleanza contro la Povertà. La strategia Europa 2020 e l’agenda sugli investimenti sociali possono fornire a Renzi un trampolino per giustificare pubblicamente un intervento organico. Ma serve un discorso nuovo, che «incornici» la misura non solo come prestazione (re)distributiva nel presente, ma anche e soprattutto come investimento sul futuro. Fornendo dati e argomenti sui benefici attesi in termini di capitale umano, occupazione, crescita, eguaglianza di opportunità e mobilità sociale. E illustrando con altrettanta chiarezza le implicazioni negative di un mancato investimento.

Si tratterebbe di una scommessa politica coraggiosa e rischiosa per il presidente del Consiglio. Ma sarebbe anche l’unica che gli italiani a cui sta a cuore il futuro (proprio e dei loro figli) farebbero bene a prendere sul serio.

 

[Questo articolo riprende, ampliandolo, quello uscito sul «Corriere della Sera» il 12 marzo scorso]