Troppo spesso si pensa che il patrimonio storico e artistico italiano sia infinito. Si perde cioè di vista come invece sia costituito da un numero di opere certamente altissimo, ma comunque finito, formato da manufatti unici, irripetibili e fragilissimi. Allo stesso modo si perde di vista come il restauro, ogni restauro, sia azione del tutto irreversibile.
Esemplare di come oggi vanno le cose per la salvaguardia del nostro patrimonio artistico è il recente restauro condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze sulla Madonna del Cardellino di Raffaello. Tempo impiegato per l’intervento sui 107 x 77 centimetri della tavola? Otto anni. Dal 2000 al 2008. Quanto è costato quel lavoro allo Stato? Difficile dirlo, ma certo alcune centinaia di migliaia di euro. Quanto sarebbe costato e quanto tempo sarebbe durato lo stesso lavoro quando appaltato dalla Soprintendenza di Firenze a un privato? Una decina di migliaia di euro e qualche mese. Quindi lo Stato, per il tramite dell’Opd ha sprecato un sacco di soldi? No. Vero è l’esatto contrario.
Lo Stato ha il dovere (art. 9 Cost.) di consegnare nel migliore dei modi alle future generazioni il patrimonio artistico della nazione. Le garanzie che un intervento di restauro sia eseguito senza danneggiare l’originale si assottigliano in proporzione del ridursi di costi e tempi dell’intervento. Tanto che l’intervento durato otto anni e costato qualche centinaio di migliaia di euro ha generato un restauro perfetto, con la sicurezza di tutti di non aver danneggiato l’opera su cui si è intervenuti. Mentre nei casi dei restauri appaltati dalle Soprintendenze secondo prassi di legge, cioè con gare al massimo ribasso e tempi di consegna sempre strettissimi in grazia delle penali dovute dall’appaltatore in caso di ritardo, il buon esito del lavoro è invece affidato alla sorte. Cioè all’abilità manuale, alla preparazione tecnica e alla disponibilità a lavorare a titolo semigratuito del restauratore che vince una di quelle gare scannate (si pensi che, incredibilmente, a partecipare alle gare d’appalto sono ammesse in Italia anche le semplici imprese edili).
Una situazione altamente rischiosa, peggiorata da tre problemi. Uno, che i soprintendenti direttori dei lavori, vale a dire i garanti per lo Stato del buon esito dei restauri, arrivano a ricoprire quel ruolo ancora nelle more dei principi del Convegno dei Soprintendenti del 1938, principi resi in legge l’anno dopo, il 1939, nel celebre corpo di leggi sulla tutela che, nei fatti, regge ancora oggi l’azione di tutela delle Soprintendenze. Si diviene soprintendenti tramite concorsi basati su studi inerenti la storia dell’arte antica o moderna o dell’architettura – né stando a sottolineare come molti invece arrivino in quel ruolo per comando. Spesso i soprintendenti (chi più, chi meno) hanno una percezione inevitabilmente remota dei problemi tecnico-scientifici e conservativi che qualsiasi intervento di restauro porta con sé, perché strutturalmente preparati solo a esprimere giudizi eminentemente soggettivi di natura critica e estetica: infine, di gusto: «pulisca un po’ di meno – pulisca un po’ di più / mi faccia la tinta neutra della lacuna più calda – no più fredda». Quindi, il restauro estetico, un lavoro che tutti possono dirigere.
Il secondo problema è l’apertura a chiunque, da sempre, della professione di restauratore tramite una semplice autodichiarazione a una Camera di commercio. Sono centomila e forse più i restauratori attivi in Italia, i restauratori cui da decenni le Soprintendenze mettono in mano il patrimonio artistico italiano per eseguirne restauri inutili e sovradimensionati, perché nella quasi totalità dei casi con finalità di natura estetica (more 1938/39), che perciò si riducono a puliture condotte a occhio, seguite da una reintegrazione delle parti danneggiate dell’opera che non presuppone abilità di disegno alcuna per il divieto della moderna teoria estetica del restauro di ricostruire quelle stesse parti danneggiate. Così riducendo il non semplice problema della restituzione critica di un’immagine storica a «pulisca un po’ di meno – pulisca un po’ di più / lacuna calda – lacuna fredda».
Terzo problema è che il contributo delle scienze sperimentali allo studio e al restauro delle opere d’arte ancora oggi soprattutto consiste nell’applicazione dei principali metodi di analisi chimica per l’esame di alcuni materiali (pigmenti, leganti, vernici, leghe metalliche ecc.) e per quanto riguarda i sussidi strumentali. I risultati di questo tipo di ricerche, orientate in senso descrittivo, hanno un rilievo assai modesto dal punto di vista della chimica e della fisica, così come svolgono un ruolo alquanto marginale nel quadro delle varie discipline storiche. Indagini scientifiche che quasi sempre confermano quanto già ci dice sulle tecniche di esecuzione originali la trattatistica tecnica storica, così come poco o nulla certificano il buon andamento dei lavori di restauro; indagini ripetitive e spesso inutili che tutti possono fare: dalle radiografie del dipinto eseguite in un ospedale, alle sezioni stratigrafiche o la caratterizzazione di un pigmento esperiti in un qualsiasi istituto universitario. In sintesi, analisi scientifiche che non servono a uscire dal «pulisca un po’ di meno – pulisca un po’ di più / lacuna calda – lacuna fredda».
Eugénie Knight, uno dei più seri, intelligenti, preparati e bravi restauratori italiani (perché ci sono anche quelli che continuano a credere in ciò che fanno, sempre meno, ma ci sono), risolve per la soprintendenza di Roma un complicatissimo problema di messa in piano e trazione su un nuovo telaio d’uno stendardo seicentesco su tela dipinto recto-verso. Tempo impiegato? Un anno. Compenso? Una manciata di euro. Qualche mese dopo squilla il telefono del suo studio: «Eugenia?». «Sì, sono Eugénie Knight». «Lo so. Io invece sò Elide. ‘Na restauratrice anch’io. Ho imparato da mi zio, a li Castelli». «Mi dica». «A la Soprintendenza m’hanno dato ‘no stendardo da restaurà. Pitturato davanti e de dietro, mannaggia. Ho vinto ‘a gara. Per du lire, mannaggia! E m’hanno detto de farme spiegà da te come s’ha dà fa er restauro. Me ’o dici ar telefono o ho da vennì lì?».
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