La vicenda dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, alla fine del 1970, e del conseguente referendum abrogativo, svoltosi il 12-13 maggio del 1974, fu piuttosto importante per il gruppo del Mulino. L’Associazione si trovò profondamente divisa, ma l’ampio e teso confronto interno, invece che far esplodere la convergenza amicale e progettuale che durava ormai da qualche lustro, trovò un modo di esprimersi che favorì alla fine l’acquisizione di un’identità originale e significativa del gruppo dei «mugnai».C’era infatti nell’esperienza del cenacolo bolognese chi valutava positivamente l’innovazione legislativa, per il suo contenuto moderno e libertario: la componente laica e socialista del gruppo lo sosteneva, anche se non mancavano perplessità specifiche sulla legge (citiamo in questo senso le posizioni di Federico Mancini o di Paolo Ungari). Ma c’erano anche tra i mulinisti figure come Sergio Cotta, Augusto Del Noce e Gabrio Lombardi, cioè alcuni dei principali promotori del Comitato nazionale per il referendum sul divorzio (Cnrd), che si costituì subito dopo l’approvazione della legge e avviò la raccolta delle firme necessarie, che fu agevolmente completata nella primavera del 1971. E c’erano infine importanti esponenti di quell’area del mondo cattolico contraria all’ipotesi referendaria, che già nel gennaio del 1972 promosse un appello per una scelta «astensionista», che depotenziasse gli effetti del referendum nel tessuto civile e politico italiano (in questo gruppo figuravano Luigi Pedrazzi, Ettore Passerin d’Entrèves, Beniamino Andreatta, Paolo Prodi, Pietro Scoppola, Boris Ulianich e altri).
Dopo alcuni scambi polemici, che lambirono anche le pagine stesse della rivista, l’Associazione «Il Mulino» decise di dar vita a un momento di ampia discussione interna. Fu convocato per il 26 e 27 febbraio 1972 un convegno interno, riservato ai soci, il cui serrato confronto fu ampiamente rappresentativo delle diverse posizioni sopra delineate. Gli atti, pubblicati in un primo «Quaderno» dell’Associazione, costituiscono una lettura piuttosto emozionante ancora oggi, per il livello culturale del dibattito, l’ampiezza delle argomentazioni, la franchezza degli scambi polemici. I promotori del referendum argomentarono soprattutto l’idea che la loro difesa di un modello di famiglia fondato sul matrimonio indissolubile era da considerare come una scelta civile, non condizionata da una visione confessionale, a fronte di un rischio di deriva individualista e deresponsabilizzante, intravisto nell’opzione divorzista. I mulinisti cattolici critici di questa impostazione tendevano invece a ritenere l’indissolubilità un carattere «sacramentale» difficilmente riaffermabile, se non a prezzo di una forzatura delle libertà, oltre a sottolineare soprattutto gli effetti negativi del referendum sugli equilibri tra Chiesa e Stato e sulla vicenda politica italiana (in quanto si sarebbe messa in crisi la convergenza riformatrice del centro-sinistra, potenzialmente ormai aperta a una stagione di nuovo dialogo con il Pci). Gli esponenti della sensibilità laica, di matrice illuminista o socialista, argomentarono in senso diverso: secondo l’allora presidente dell’Associazione Giorgio Galli, il confronto che si delineava sparigliava positivamente le carte del gioco sociale e politico in Italia, favorendo l’aggregazione di un’ipotetica nuova maggioranza riformatrice. Altri soci (Vittorio Capecchi e Carlo Doglio) sostennero posizioni ancor meno omogenee, secondo cui il dibattito sul divorzio rischiava di essere fuorviante rispetto ai veri problemi della società italiana.
Proprio in quella primavera del 1972, però, lo scioglimento anticipato delle Camere comportò il rinvio del referendum. L’ipotesi che in Parlamento si potesse procedere a modificare la legge, rendendo così inutile il referendum, fu oggetto da allora di molti confronti, trattative e schermaglie. Il clima politico del Paese mutava intanto progressivamente: la breve stagione del governo di centro-destra Andreotti-Malagodi lasciò il posto al riemergere del centro-sinistra dopo l’accordo di palazzo Giustiniani tra Moro e Fanfani. Alla fine, la Dc e la gerarchia ecclesiastica sciolsero il nodo delle rispettive difficoltà nella direzione della competizione referendaria, che venne calendarizzata per la primavera del 1974. Il gruppo di mulinisti cattolici che aveva animato la critica iniziale al referendum (allargato anche a Ezio Raimondi, Leopoldo Elia, Romano Prodi) scelse di prendere posizione per il «no» all’abrogazione, firmando il 16 febbraio un appello assieme ad altri esponenti cattolici, che andavano da alcuni intellettuali e giornalisti a una componente aclista e sindacale, fino agli ambienti del «dissenso» e dei «cristiani per il socialismo».
La vittoria del «no» del maggio 1974 – o meglio, la sconfitta del «sì», come argomentò Arturo Parisi sulle pagine della rivista partendo da una valutazione statistica del voto – fu oggetto di ampie e approfondite analisi sulla pagine del «Mulino», ancora una volta non del tutto convergenti. Gli sviluppi politici smentivano comunque la traduzione della spaccatura sul divorzio in chiave governativa, e andavano soprattutto ad aprire una inedita «questione democristiana». Ma sullo sfondo si delineava soprattutto la necessità di riprendere l’analisi dell’impatto degli eventi sul radicamento sociale e sulla mentalità del cattolicesimo italiano, uscendo da una rassicurante mitologia sull’«Italia cattolica». Il cenacolo bolognese usciva dalla lunga contesa affermandosi quindi definitivamente non tanto come soggetto politico-culturale, quanto piuttosto come area di elaborazione intellettuale pluralista e articolata, capace di aiutare a comprendere le dinamiche profonde del Paese.
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