Camus scrisse che «mal nommer un objet, c'est ajouter au malheur de ce monde» (nominare male le cose contribuisce all’infelicità del mondo).

«Non» c’era una volta il reato di tortura. Spesso si sente dire che l’Italia fosse morosa rispetto a un obbligo di diritto internazionale vincolante (la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura del 1984 che obbliga gli Stati a introdurre il reato di tortura nel proprio ordinamento), ma occorre ricordare (perché procediamo su un cammino costituzionale solido) che l’Italia era innanzitutto morosa rispetto al dettato costituzionale che inserisce, unica fattispecie incriminatrice costituzionalmente prevista all’art. 13, l’obbligo di punire ogni «violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». 

In Italia insomma, prima dell’introduzione nel 2017 dell’art. 613 bis c.p., non si poteva nominare la tortura e si cercavano altre etichette penali, le lesioni personali o il fantomatico art. 608 c.p., abuso di autorità contro arrestati o detenuti che, rispetto a fatti di tortura, è l’epitome del «mal nominare le cose» perché contribuisce a sostenere l’idea per cui le violenze commesse all’interno delle carceri abbiano sempre una base razionale, legata all’autorità intrinseca dei pubblici ufficiali, di cui questi potrebbero sì abusare, ma sempre nel contesto dell’impiego di «misure di rigore» necessarie per il «mantenimento dell’ordine». Per dirla in breve, in carcere la violenza è congenita, serve e, diciamoci la verità, non se ne può fare a meno, come una colla che tenga insieme le mura, tra la muffa e le crepe. 

La tortura, invece, come ci dice la Corte europea dei diritti umani (la Cedu, che è il tribunale internazionale «master» nel delineare i confini della tortura, anche rispetto ai, pure sanzionati, trattamenti disumani e degradanti) è caratterizzata anche dal carattere «gratuito» delle violenze commesse nei confronti di persone vulnerabili in quanto sottoposte all’autorità pubblica (si veda il caso delle violenze del G8 a Genova, Cestaro c. Italia). La totale gratuità si può riscontrare, infatti, anche nell’assenza di un qualsiasi nesso di causalità tra la condotta della persona detenuta e l’uso della forza da parte degli agenti di polizia. Ce lo dice sempre la Cedu che condanna per tortura la Russia in un caso (Vladimir Romanov c. Russia del 2014) in cui un detenuto era stato preso a manganellate dopo aver obbedito all’ordine di lasciare la sua cella e proprio mentre era caduto a terra. Dove è l’autorità e dove è il suo abuso? Dove sono le «misure di rigore»?D’altronde entro questi fragili e infelici confini si dovevano muovere le procure e i giudici nei (pochissimi, vale la pena notarlo) procedimenti per maltrattamenti (comunque decodificati) all’interno delle carceri che la storia giuridica del nostro Paese ha conosciuto prima dell’introduzione del reato di tortura.

La forza della parola, sola (e nonostante la criticabilissima architettura entro cui è costruito il reato), è riuscita non tanto a creare una realtà, ma a crearne la decodifica giuridica e, quindi, a disvelarla rispetto ai nascondimenti e ai malintesi. Per questo dobbiamo ringraziare Luigi Manconi che prima si è battuto per l’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento, poi ha lottato contro la sua formulazione, frutto non tanto di una negoziazione, come è normale che sia nell’ambito della politica del diritto, ma di una ricerca strenua di limitazione della portata della norma. Una delimitazione portata avanti, in primo luogo, creando una fattispecie di reato comune (chiunque può commetterlo, anche la persona privata), quando la tortura nasce, a livello internazionale, come tortura di Stato (la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’è il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo), poi inserendo una serie di diciture astruse (si veda la necessità di un «verificabile trauma psichico»). Tentativi strenui, sì, eppure occorre ricordare al legislatore che la legge vivrà nella sua concreta applicazione da parte delle Corti che si stanno misurando con l’interpretazione della norma proprio grazie ai procedimenti per tortura di Stato nelle carceri che si stanno moltiplicando sull’intero territorio nazionale.

I fatti che vedono anche il carcere di Sollicciano implicato in un procedimento per reato di tortura contro persone detenute per violenze (oltre alla contestazione del falso ideologico in atto pubblico) che sarebbero state commesse da agenti di polizia penitenziaria e che seguono una lista che si allunga ormai inesorabilmente, inaugurata dalle denunce di San Gimignano (e proseguita con i casi di Monza, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia, Santa Maria Capua Vetere), vanno letti in questa prospettiva.

Stiamo nominando la tortura, i detenuti e le detenute delle patrie galere possono cominciare a nominare la tortura, a denunciarla e ottenere non tanto la condanna, ma in primo luogo un’indagine seria e completa. In questo senso è davvero significativo che le indagini, nel caso di San Gimignano, come in questo di Firenze, siano state effettuate dal Nucleo investigativo centrale della stessa Amministrazione penitenziaria. Questa è la migliore risposta a chi parla di strumentalità delle denunce e delle indagini.

Così come gli stessi procedimenti in atto, la discussione pubblica che ingenerano, ma soprattutto le argomentazioni giudiziali e la riflessione tecnica che ne scaturirà, lungi da mostrare la strumentalità delle denunce e l’improvvidenza dell’introduzione del reato di tortura, costituiscono i migliori strumenti per costruire i confini della nuova fattispecie di tortura e di trattamenti disumani e degradanti (anch’essi ricompresi nell’articolo 613 bis c.p.).

E tuttavia, quando la tortura giuridicamente non «esisteva», pure esistevano atti di violenza psichica e fisica in carcere. Proprio a Sollicciano, nel 2005 un gruppo di associazioni denunciò violenze perpetrate da agenti di polizia penitenziaria (organizzati in una squadra con a capo un ispettore) ai danni di una persona detenuta. Il procedimento penale che ne derivò portò alla condanna per lesioni personali lievi (l’art. 608 c.p., l’abuso di autorità fu infatti così derubricato), giudicate guaribili in due giorni. Il caso, con condanna confermata in Cassazione proprio nel 2020 (a distanza di 15 anni dai fatti), ebbe poca eco sui giornali e provocò ben poco dibattito pubblico. Dei cosiddetti reati satellite, tipici dei casi di tortura (eventuali omissioni di atti d’ufficio degli operatori sanitari, minacce, falsi ideologici e materiali in atti pubblici etc...), neanche l’ombra. Inchiesta tempestiva e approfondita non pervenuta. Sanzioni disciplinari niet.

Credo che la sintesi della differenza tra il prima e il dopo l’introduzione del reato di tortura stia esattamente nel paragone tra questi due casi. Così come appare evidente che il primo procedimento abbia avuto uno scarsissimo effetto deterrente rispetto al ripetersi e riorganizzarsi di un sistema di violenze ai danni delle persone detenute (se saranno confermate), all’interno dello stesso istituto penitenziario.

Se nominare male le cose contribuisce all’infelicità del mondo, non nominare le cose corrisponde a negare la nostra umanità e forse lo stesso atto dell’attribuire un nome alle cose (il cosiddetto power of naming) contribuisce, invece, ad attenuarne il pericolo.