Il 2 novembre 2020 la città di Vienna è stata colpita da un attacco terroristico. Quattro civili inermi sono stati uccisi, altre 22 persone sono rimaste ferite, alcune gravemente. L’attentatore, anch’egli rimasto ucciso, è un cittadino austriaco-macedone, Kujtim Fejzulai, il quale non era solo in contatto con una rete di jihadisti tedeschi, ma era già stato condannato a 22 mesi di carcere nell’aprile 2019 dopo aver cercato di viaggiare in Siria per unirsi all’Isis.

L’attentato ha provocato diverse reazioni da parte delle autorità austriache: due Moscheevereine frequentate dall’attentatore sono state chiuse per aver violato il principio fondamentale espresso dal §4.3 dell’Islamgesetz austriaco (Bundesgesetz über die äußeren Rechtsverhältnisse islamischer Religionsgesellschaften, 2015: per avere il riconoscimento come persona giuridica una Moscheeverein deve eine positive Grundeinstellung gegenüber Gesellschaft und Staat bestehen, sintagma che potremmo tradurre in questo modo: “avere un atteggiamento positivo nei confronti della società e dello Stato”).

Inoltre, il giorno 11 novembre 2020, il governo federale ha deciso in sede di Consiglio dei ministri di presentare un pacchetto di misure contro il terrorismo: tra queste – delle quali però al momento non abbiamo i dettagli, ma solo quanto è stato genericamente esposto nella conferenza stampa di presentazione (si legga la nota ufficiale sul sito del Governo austriaco) – vi è anche la creazione di un reato di "Islam politico", che avrebbe la funzione di agire penalmente “contro coloro che non sono terroristi, ma che creano terreno fertile per il terrorismo”.

Scopo di questo nuovo reato sarebbe – ad avviso del governo e del cancelliere Sebastian Kurtz – quello di impedire alle associazioni islamiche di invocare la tutela costituzionale offerta dalla Carta fondamentale austriaca alla libertà di religione ed alla libertà di espressione quando esse diffondono idee estremiste: esso prevedrebbe inoltre la possibilità di creare un registro degli imam, in modo – a quanto sembra – da poter controllare assiduamente chi può effettuare sermoni ed il contenuto degli stessi all’interno dei luoghi di culto. Infine, secondo quanto riporta la rete radiotelevisiva di Stato Orf si propone che “l'estremismo politico di matrice religiosa” (senza un riferimento specifico all'Islam) sia inserito nel codice penale come circostanza aggravante.

Il pacchetto è stato duramente criticato dal prof. Alois Birklbauer, penalista dell’Università Johannes Kepler di Linz all’interno del blog Verfassungsblog (si legga A. Birklbauer, Ein Schnellschuss ins rechte Seitenaus. Zum Anti-Terror-Paket der österreichischen Bundesregierung): alcune delle osservazioni del cattedratico di Linz sono peraltro pienamente condivisibili anche nella prospettiva del diritto ecclesiastico dello Stato.

Quanto al reato di “Islam politico”, Birklbauer esprime argomentazioni che concordano con quanto evidenziato da due maestri italiani del diritto penale, quali sono Marinucci e Dolcini: ovvero come dal principio di riserva di legge in materia penale discenda tra l’altro il principio di precisione, ossia l’obbligo per il legislatore di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali, così da evitare che il giudice assuma un ruolo creativo (si legga G. Marinucci e E. Dolcini, Manuale di diritto penale: Parte generale, Giuffré, 2009, pp. 49 ss.). Lasciando per un momento l’Austria e concentrandoci sulla nostra Repubblica, va ricordato che i giudici della Consulta hanno posto in luce come il legislatore abbia “l’obbligo di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e della intellegibilità dei termini impiegati”: nelle norme penali “il soggetto deve poter trovare, in ogni momento che cosa gli è lecito e cosa gli è vietato, ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento” (C. cost. n. 364/1988) e questo richiede la sussistenza di “requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità del precetto penale in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate” (C. cost. n. 185/1992).

Francamente appare difficile strutturare normativamente il concetto di “Islam politico” in modo che esso rispetti pienamente il principio di precisione: ogni manifestazione esteriore di un credo religioso, soprattutto quando si pone come espressione di moralità proposta e condivisa all’interno di un gruppo, finisce inevitabilmente per toccare il rapporto tra l’essere umano e la sfera pubblica. Ogni manifestazione dell’Islam – ma forse ogni manifestazione esteriore di un credo religioso – può latu sensu essere definita come “azione politica”, ovvero come partecipazione dei fedeli (in molti casi cittadini) all’azione del “prendersi cura” della propria comunità in forme strutturate (si pensi alle associazioni di volontariato) o spontanee. Non si può pensare di definire strutturalmente, definendolo entro i rigidi parametri del principio di precisione, l’impegno civile dei musulmani, né quando esso avvenga quale azione sociale ispirata da norme confessionali, né quando esso si inserisca entro i confini dell’ agere licere connesso alla libertà di associazione. E del resto, non si comprende perché criminalizzare a priori i musulmani impegnati in espressioni di partecipazione politica e non gli appartenenti ad altre confessioni religiose che decidano di prendersi cura delle questioni relative alla sfera pubblica. E questo a maggior ragione dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 115/2018, la quale – come autorevolmente ha scritto Massimo Donini – “sposa una declinazione “forte” della determinatezza, che suggerisce al Parlamento e alla magistratura, non solo all’Ue, un diverso rigore definitorio ed ermeneutico” (così in Lettura critica di Corte costituzionale n.115/2018. La determinatezza ante applicationem e il vincolo costituzionale alla prescrizione sostanziale come controlimiti della regola Taricco, in Dir. pen. contemp., 11 luglio 2018, p. 26).

Ma c’è dell’altro.

Dietro la proposta del reato di “Islam politico” si intravede la tentazione di confinare le idee religiose (o meglio, alcune idee religiose) fuori dalla sfera pubblica: tentazione che confligge sia con la speculazione di pensatori liberali come Jürgen Habermas (del quale si leggano le argomentazioni espresse in Tra scienza e fede, Roma-Bari 2008, spec. pp. 19 ss), sia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Va infatti rammentato che, secondo la Corte di Strasburgo, laicità (la quale certamente costituisce nel suo nucleo più essenziale un principio sovranazionale, patrimonio del costituzionalismo europeo, dotato di funzione parametrica rispetto alle norme degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Roma) comporta l’obbligo di tutelare – attraverso la legislazione di ogni Stato membro del Consiglio d’Europa – il pluralismo ideologico e confessionale. Ciò non implica solo che gli Stati firmatari della Convenzione di Roma del 1950 debbano costituirsi come democrazie partecipative basate su libere elezioni, ma anche che essi devono garantire – ad ogni fedele – la possibilità di esprimere i propri valori all’interno di un “progetto di vita” individuale o comunitario e di dar vita a gruppi sociali che portino tali valori entro la sfera pubblica. Il limite di tale libertà va riscontrato nel rispetto di altri principi/valori espressi dalla Convenzione di Roma che siano ritenuti preminenti e inderogabili: per cui nulla vieta di creare non solo enti o associazioni dediti ad un’azione latu sensu politica, ma anche partiti politici di ispirazione religiosa, purché questi abbiano lo scopo di concretizzare il proprio programma ideologico in norme giuridiche rispettose dei principi del costituzionalismo democratico. Ciò che certamente è inammissibile – nello spazio del Consiglio d’Europa, giacché in contrasto con il principio di laicità – è dar vita a partiti politici aventi l’obiettivo di trasfondere nell’ordinamento dello Stato norme meramente confessionali non razionalmente giustificabili. Tale contrasto nasce dal presupposto che sia la libertà di opinione che la libertà di religione implicano la neutralità dello Stato; ciò implica la necessaria fondazione dei processi di produzione legislativa sulla ragionevolezza delle disposizioni normative e non sull’origine divina e/o fideistica delle stesse.

Questa inammissibilità impatta sull'“Islam politico”? A mio avviso solo in parte.

È vero che in occasioni la Corte di Strasburgo ha espresso perplessità sulla possibilità di conciliare pienamente il diritto islamico con i principi inderogabili espressi dalla Convenzione di Roma (il riferimento principale è rappresentato dalla sentenza della Grand Chamber della Corte nel caso Refah Partisi and others v. Turkey del 13 febbraio 2003, ed in particolare al §123 di tale decisione): così come è vero che esiste una propaganda jihadista diretta all’istigazione a compiere atti terroristici o a giustificare questi ultimi sulla base di una visone assolutizzante e militare del rapporto tra religione e politica.

Questo non implica tuttavia che esista una presunzione – né juris tantum juris et de jure – di incompatibilità tra l’azione politica di ispirazione islamica e i principi/valori fondanti del costituzionalismo europeo. Piuttosto, l’orientamento della Corte è quello di imporre – entro i confini del Consiglio d’Europa – un obbligatorio spazio di verifica – in condizioni di uguaglianza per tutti gli attori coinvolti – diretto a saggiare la possibilità di ammettere partiti e movimenti politici che dichiarino di ispirarsi a precetti di ordine religioso entro l’arena della competizione politica. Verifica che deve essere di carattere amministrativo, prima ancora che oggetto di azione penale.

Quanto alla nostra Repubblica, è evidente che qualunque gruppo dichiari di fondarsi su principi incompatibili con le libertà fondamentali dei cittadini, ovvero agisca per disconoscere esplicitamente l’uguaglianza giuridica tra uomo e donna, oppure per sovvertire i principi fondamentali su cui si basa la democrazia italiana non potrà ricevere riconoscimento ai sensi del 1159/1929 né tantomeno ottenere un’intesa con lo Stato. Sarà compito del giudice penale valutare eventuali responsabilità penali degli organi apicali dell’ente laddove lo statuto ponga in essere i presupposti di una violazione della vigente legislazione anti terrorismo (ex art. 270-bis c.p.) ovvero il gruppo stesso si costituisca quale associazione a delinquere ai sensi dell’art.416 del codice penale. Sarà del parimenti compito del giudice penale verificare se talune espressioni manifestate pubblicamente da aderenti a movimenti fondamentalisti integrino la fattispecie di incitamento, di persuasione o stimolo idonea a generare o rafforzare concretamente ed effettivamente una determinata intenzione criminosa (art. 414 c.p.).

Questa potrebbe essere la linea politica di Kurtz: applicare la legislazione antiterrorismo vigente, vigilare sulla concreta azione dei gruppi registrati – entro i principi costituzionali che stanno alla base della legislazione in materia ecclesiastica – ed utilizzare l’intelligence per le azioni di propaganda, reclutamento e pianificazione di azioni violente: il tutto senza sensazionalismi ed etichettamenti impropri che vanno più verso il populismo irrazionale che verso una politica criminale ragionevole ed equilibrata.