Difficile dissentire da quanto affermato da Tullio Padovani, che ha utilizzato la categoria dell’analfabetismo giuridico o dalle “preoccupazioni” manifestate dal Consiglio direttivo dell’Associazione italiana professori di diritto penale, per descrivere il primo intervento normativo del governo Meloni firmato in occasione del rave party tenutosi a Modena nelle scorse settimane, animato da migliaia di persone. Il decreto legge 31 ottobre 2022 n. 162 si presta, in effetti, a divenire un caso di scuola, da mostrare agli studenti per spiegare come non debba scriversi una disposizione, specie qualora recante una nuova tipologia di reato. L’art. 5 del decreto legge in questione, introduttiva dell’art. 434 bis del Codice penale, infatti, si segnala per genericità, imprecisione e vaghezza inusitate, tali da inficiare, sul piano sostanziale, il principio di determinatezza della norma penale che impone al legislatore l’obbligo di formulare chiaramente la fattispecie al fine di evitare abusi ed eccessi di discrezionalità nella fase applicativa ed interpretativa. Queste caratteristiche, riflesse dal lessico impiegato, a dir poco approssimativo, trovano compimento nell’ipotizzato reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica che consiste, tautologicamente, nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con sanzioni particolarmente severe: reclusione da tre a sei anni e multa da mille a diecimila euro. Un range che consente alla magistratura lo svolgimento di intercettazioni a carico degli organizzatori, dei promotori e degli stessi partecipanti, anche se minori, nei confronti dei quali il decreto legge contempla semplicemente uno sconto di pena e che, comunque, ha già generato tensioni inevitabili, come nel caso della notizia riportata nei giorni scorsi dall’Ansa in relazione al corteo della Rete antifascista di Pavia, che la Questura avrebbe voluto limitare a cinquanta partecipanti.
Sul versante costituzionale, la sola lettura della disposizione rende palesi le infinite possibilità interpretative, che incidono sulla portata prescrittiva dell’art. 17 Cost., che, come è noto, sancisce, quale principio-limite generale, che le riunioni (tra le quali, certamente, possono essere annoverati i raduni), ovunque esse avvengano, debbano svolgersi pacificamente e senz’armi. Solo in riferimento alle riunioni in luogo pubblico, ad esclusione di quelle elettorali, soggette a disciplina peculiare, è imposto agli organizzatori un obbligo di preavviso all’autorità di pubblica sicurezza, almeno tre giorni prima della riunione (art. 18 t.u.l.p.s.). Nessuna autorizzazione, dunque, a dimostrazione di un evidente favor mostrato dal Costituente nei confronti di una rilevante libertà collettiva, la cui ratio è riflessa dalla precisazione inerente al limite dei comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica richiesti per le riunioni in luogo pubblico, che impone, in caso di diniego, precisi oneri motivazionali a carico dell’autorità di pubblica sicurezza, di carattere specifico e non generico. Al contrario, la disposizione introdotta in fretta e furia dal governo italiano fresco di giuramento produce una indebita estensione dei limiti, incomprensibile anche tenendo conto del vigente articolo 633 del codice penale, perfettamente applicabile all’evento in oggetto, che prevede il reato di occupazione abusiva di edifici e terreni, sanzionata con la pena della reclusione da due a quattro anni, laddove il fatto sia commesso da più di cinque persone.
Una dichiarazione d’intenti identitaria nel segno della più severa legalità, espressa in favore di un elettorato di riferimento, molto sensibile sui temi della sicurezza e della lotta alla “devianza”
Un delirio, insomma (questo la traduzione italiana di Rave) che dalla festa si sposta al piano del diritto. Qual è l’inclinazione di questo piano? A prima vista la sensazione è stata quella di trovarsi dinanzi ad un “manifesto”, a una dichiarazione d’intenti identitaria nel segno della più severa legalità (in questi termini si è espresso, del resto, il guardasigilli Nordio), espressa in favore di un elettorato di riferimento, molto sensibile sui temi della sicurezza, della lotta alla “devianza” e del degrado, vero o presunto.
A guardar meglio, tuttavia, l’impressione è diversa. Il decreto in esame riassume, infatti, in un sol colpo, tendenze in corso da decenni, che, assieme considerate, delineano una sorta di diritto di governo, funzionale ad alimentare tensioni e divisioni che caratterizzano la “democrazia del pubblico”, tratteggiata da Bernard Manin in un fortunato saggio di qualche anno fa, adatto ed adattabile alla società verticale, alla società della sfiducia, che da più di vent’anni si nutre del paradigma securitario ed emergenziale (che alimenta incessantemente, anche grazie alla martellante opera di manipolazione dei media) e che, conseguentemente, minimizza e svaluta il modello consensuale, fondato sulla cooperazione, sulla partecipazione, sulla discussione, sulla negoziazione (opportunamente utilizzato, peraltro, dalle forze dell’ordine in relazione all’evento modenese, conclusosi senza incidenti di rilievo). Una cultura, questa, che relega non più al cielo della dottrina, ma, addirittura, all’olimpo dell’utopia, elaborazioni teoriche rivolte al garantismo, come il diritto penale minimo, che avevano il merito di affrontare il tema capitale della gestione dei conflitti connessi al pluralismo democratico e criticare l’espansione degli interventi punitivi.
Nella società dell’emergenza, al contrario, il segno conta infinitamente più della norma, l’incertezza è un valore, l’indeterminatezza è una necessità. La scrollata di spalle con la quale diversi esponenti della maggioranza hanno accolto le sacrosante critiche della dottrina costituzionalistica e penalistica, affrettandosi a dichiarare (lo ha fatto lo stesso Ministro Piantedosi) che in sede di conversione si sarebbero approntate le eventuali correzioni formali, sta a testimoniarlo. Il decreto che introduce il reato di invasione arbitraria, che non menziona mai i rave, a testimonianza della volontà di considerare il fenomeno, che segna da decenni la storia della contro-cultura, alla stregua di qualsiasi altra occupazione (scuole e università, centri sociali) più o meno temporanea (a proposito dei rave party, e non solo, è stata coniata l’espressione T.A.Z., zona autonoma temporanea) evidenzia, insomma, una determinata idea del diritto e delle sue fonti, destinate a garantire, anche oggi, le condizioni di “disciplina e calma” che, in epoche fosche della storia italiana, erano considerate essenziali per la tenuta della nazione (Discorso di Benito Mussolini nella sede dell’associazione mutilati di Roma, 11 marzo 1923, in F. Frosini, La costruzione dello Stato nuovo. Scritti e discorsi di Benito Mussolini 1921-1923, Marsilio, 2022, p. 132). Uno schema che, come è noto, la Costituzione rifiuta radicalmente.
Il decreto che introduce il reato di invasione arbitraria, che non menziona mai i rave, a testimonianza della volontà di considerare il fenomeno alla stregua di qualsiasi altra occupazione, evidenzia una determinata idea del diritto e delle sue fonti
Il dato da segnalare, tuttavia, è che tutto ciò avvenga e possa avvenire in virtù di una politica che da decenni ha cambiato volto e, nel cambiarlo, ha già trasfigurato istituti tipizzanti l’ordinamento costituzionale.
Non deve stupire, in tal senso, che la novella al codice penale sia transitata attraverso un decreto legge. Da decenni se ne fa consapevole e reiterato abuso, senza che le grida di allarme dei giuristi, dei costituzionalisti in primis, e le correzioni di rotta invocate della Corte costituzionale, sui requisiti di necessità e urgenza, sui vizi del decreto e sulla legge di conversione, sull’omogeneità delle misure che si intendono introdurre e gli stessi moniti quirinalizi siano riusciti ad arginare un fenomeno ormai evidentemente fuori controllo. Lo stesso si dica della collegialità dell’azione di governo, sempre meno rilevante in virtù della debolezza del modello di coalizione, a sua volta connesso alla perdurante crisi partitica ed alle storture di una legge elettorale che impone aggregazioni forzate e, spesso, innaturali. Un piano, infine, che riflette una sempre più marcata personalizzazione della politica, che, attraverso l’adozione di un modello presidenziale, si vorrebbe oggi consacrare, senza considerare i guasti di un sistema, che, nella sua variante semipresidenziale, è da anni oggetto di critiche serrate anche nei Paesi in cui vige da più tempo, come la Francia.
Il decreto rave riflette, dunque, tendenze generali, in atto da tempo. La reazione democratica e giuridica ha dimostrato, tuttavia, che esiste e palpita ancora, nel nostro Paese, una cultura della legalità penale, delle garanzie e del costituzionalismo democratico che andrebbe seguita e fatta propria dalle forze politiche che a quei principi dichiarano di prestar fede. È indispensabile che ciò accada. Modena e Catania sono meno lontane di quanto possa sembrare.
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