Le ultime settimane hanno offerto due eventi che consentono una valutazione politica su un problema che appare di ardua soluzione, ma di estrema urgenza e rilevanza: le varie forze che dovrebbero costruire un’alternativa alla destra stanno davvero pensando a una qualche strategia per il futuro? Intendendo per “strategia” la ricerca di una linea di condotta, non schiacciata sulla contingenza, che definisca obiettivi, che tenga conto delle condizioni date, dei vincoli e dei possibili effetti delle scelte che si compiono, sulla base di ragionevoli aspettative circa il possibile corso degli eventi.
I due eventi hanno un segno diverso: in Parlamento, tutte le forze di opposizione (ad eccezione di Italia Viva, sulla cui effettiva collocazione è lecito avere molti dubbi) hanno trovato un primo momento di convergenza programmatica sulla questione del salario minimo. D’altra parte, le elezioni regionali in Molise (così come alcuni ballottaggi nelle precedenti elezioni comunali) hanno mostrato una debole capacità espansiva e aggregante dello schieramento potenzialmente alternativo alla destra. Quali scenari strategici si possono dunque prefigurare, se si vuole rendere credibile una prospettiva politica in grado di contrastare quella che sembra una marcia trionfale e inarrestabile da parte della destra?
Dopo quanto accaduto il 25 settembre scorso, i vincoli sono presto detti: la legge elettorale vigente (che è assolutamente improbabile possa essere cambiata) obbliga alla costruzione di coalizioni preventive. C’è poi un altro dato di fatto che non si può ignorare: nonostante il primo momento di convergenza programmatica poc’anzi richiamato, su molte altre questioni le posizioni delle forze della “non-destra” sono variegate, a volte anche molto conflittuali e, presumibilmente, non facilmente ricomponibili. Occorre poi aggiungere un’altra premessa “di fatto”: è vero che le prossime elezioni europee si svolgeranno con il sistema proporzionale, ma è anche vero che, nel corso del 2024, si svolgeranno tantissime elezioni comunali e alcune importanti elezioni regionali, in cui sarà decisiva la composizione delle coalizioni che si formeranno. Quali scenari potranno venire fuori sulla base di queste premesse? Proviamo a immaginarne due diversi.
Una resa dei conti tra le forze di “non destra” non potrà esserci: se venisse tentata, produrrebbe non un vincitore, ma solo un comune disastro
Il primo (piuttosto inquietante) potrebbe essere definito come quello della “resa dei conti”. Ciascuna delle forze in campo (la sinistra fuori dal Pd e i Verdi, il Pd, il M5S e poi quel che per comodità definiamo ancora “Terzo Polo”, sebbene sia molto dubbio che esista davvero come tale) ritiene a tal punto incompatibili le proprie posizioni da quelle degli altri da ritenere inevitabile uno scontro senza quartiere: una battaglia politica, “all’ultimo voto”, in chiave concorrenziale, allo scopo di acquisire l’egemonia del futuro schieramento che si opporrà alla destra e rendere ininfluenti o subalterni gli altri. Non è una fantasia: questa idea la si può leggere, neanche troppo tra le righe, nelle parole di quanti, politici e commentatori, rimarcano con malcelato compiacimento la “distanza siderale” che separa, su varie questioni, le forze di questo potenziale campo alternativo.
Questo scenario potrebbe realizzarsi anche solo per default, come effetto inerziale della complessiva incapacità di costruzione di un’alleanza, tuttavia deve fare i conti con un altro dato: è estremamente improbabile che i rapporti di forza all’interno della “non-destra” possano mutare sostanzialmente. Certo, ciascuna forza può avere margini di crescita potenziale in segmenti diversi dell’elettorato; il Pd, in particolare, può e deve proporsi di ridefinire e rafforzare la propria proposta politica e identità, in modo da tornare a parlare a quei milioni di propri elettori che, negli ultimi anni, lo hanno malamente abbandonato (ma è un compito difficile, di lunga lena, e dall’esito non scontato). Ma per quanto sia auspicabile questo recupero (obiettivo che vale anche per il M5S, rispetto ai suoi elettori piuttosto volatili), non appare credibile per nessuna delle forse in campo l’idea di potersi ergere a perno esclusivo o dominante di un’alternativa alla destra. Si guardino, ad esempio, le tendenze registrate dai sondaggi negli ultimi mesi a proposito delle due forze (il Pd e il M5S) che, stando a molti commenti giornalistici, sarebbero entrati in una fase di oggettiva, dura competizione: il notevole recupero del Pd (dal 14-15% della fase acuta di depressione post-elettorale all’attuale 20-21%) non è avvenuto a scapito del M5S, che è rimasto stabile intorno al 15-16%. Insomma, i due elettorati sono solo in minima parte sovrapponibili, anzi, hanno caratteristiche territoriali e sociali molto diverse e non si intravvedono, almeno a breve-medio termine, molti vasi comunicanti tra di loro. Ma, proprio per questo, sono elettorati potenzialmente complementari: una chance che andrebbe coltivata. Una vera “resa dei conti”, insomma, non ci potrà essere; e, se venisse tentata, produrrebbe non un vincitore, ma solo un comune disastro.
Nel campo alternativo alla destra, bisogna cominciare a far passare l’idea che ci potranno, e ci dovranno, essere degli accordi elettorali che non presuppongono, necessariamente, un integrale accordo politico
Il secondo scenario è quello che potremmo definire di una coalizione a geometria variabile. Tutti dovrebbero con umiltà prendere atto che ciascuno è necessario ma che nessuno può farcela da solo. E quindi, la via intrapresa, quella di puntare pazientemente a costruire aree programmatiche di convergenza, già oggi nell’opposizione al governo, appare quella più ragionevole. Ma accanto a ciò vi è un altro essenziale tassello del discorso pubblico che le “non destre” dovranno e dovrebbero rivolgere apertamente all’opinione pubblica: assieme alla valorizzazione delle convergenze programmatiche, occorre una schietta ammissione che su altre questioni ci sono e probabilmente rimarranno delle divergenze: senza nasconderle, ma senza nemmeno enfatizzarle strumentalmente. Bisogna cominciare a far passare l’idea che ci potranno, e ci dovranno, essere degli accordi elettorali che non presuppongono, necessariamente, un integrale accordo politico. L’obiettivo sarà quello di evitare i potenziali gravi effetti distorsivi della rappresentanza prodotti dal Rosatellum, effetti che abbiamo visto pienamente dispiegati il 25 settembre scorso. Non si potrà tentare solo alla vigilia delle prossime elezioni di concludere accordi frettolosi e abborracciati: un lavoro di ricucitura di un terreno comune deve iniziare oggi, preparando l’opinione pubblica. Anche in vista delle Europee e delle moltissime elezioni locali e regionali del 2024.
Si obietterà certamente che, in tal modo, quando arriverà il momento delle elezioni politiche, le forze che si oppongono alla destra rischiano di non poter presentare una proposta propriamente definibile di governo (una possibile maggioranza, un candidato leader ecc.). Vero, ma la risposta può essere efficace. In primo luogo, bisognerà valorizzare ciò che unisce le diverse piattaforme; ma poi bisognerà sottolineare come la competizione, con le regole del Rosatellum, si svolga di fatto su basi proporzionali. L’accordo elettorale ha la funzione di sterilizzare gli effetti distorsivi dei collegi maggioritari; agli elettori spetta il compito di indicare gli orientamenti prevalenti scegliendo tra le diverse forze. L’accordo serve, semplicemente, a non regalare all’avversario più seggi di quanti gliene spetterebbero sulla base del consenso reale ottenuto tra gli italiani. Sarebbe proprio sconveniente o incomprensibile spiegare agli elettori: “Sì, è vero, non siamo d’accordo su tutto; ma forse pensate che, per questo, dovremmo (un’altra volta!) servire alla destra la vittoria su un piatto d’argento?”. Una maggioranza, in Parlamento, si formerà poi sulla base dei rapporti di forza che emergeranno dalle urne.
La vera difficoltà di questa possibile strategia va colta nel fatto che, tra gli attori politici e tra gli stessi elettori, agiscono schemi mentali molto tenaci che potremmo definire come il frutto avvelenato della cosiddetta “cultura del maggioritario”, l’idea cioè che le alleanze elettorali siano esse stesse immediatamente politiche. In effetti, ciò accade anche perché le identità sono deboli: tanto deboli da poter essere definite solo in negativo, proclamando stentoreamente: “Con quello? Mai!”, o solo attraverso guardando il vicino a cui ci si accompagna: come a dire, “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.
È stato Vincenzo Visco, nell'agosto 2022, in un articolo purtroppo non letto da chi avrebbe dovuto, a esporre limpidamente questo concetto, peraltro allora sostenuto vanamente anche da altri:
“Le prossime elezioni politiche saranno decise dal risultato nei collegi uninominali […]. Poiché le destre sono apparentate, mentre il variegato mondo che si colloca fuori da quel perimetro si presenta incredibilmente diviso, l’esito pare già segnato. Sarebbe possibile cambiare questo stato di cose? In teoria sì, se si uscisse dalla logica del maggioritario per cui qualsiasi accordo che viene stipulato ha inevitabilmente una valenza politica e programmatica in vista di un futuro governo”.
La questione si riproporrà, prima o poi, esattamente negli stessi termini: non sarebbe meglio pensarci fin da ora?
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